venerdì 31 ottobre 2008

Anna Luisa Spagna e la sua India


PAOLO PACCIOLLA ANNA LUISA SPAGNA

LA GIOIA E IL POTERE (Besa editrice)

Lecce - 31 ottobre 2008 alle ore 19,00
presso il Convento dei Teatini.

Interverranno l'on. Adriana Poli Bortone e il prof. Roberto Perinù.



Un percorso storico nella musica e nella danza dell’organismo sociale indiano: la musica vedica della casta sacerdotale, che sottolineava e dava forza ai vari momenti dei riti sacrificali; le esecuzioni orchestrali e le danze nelle splendide corti dell’India – da quelle antiche, buddiste o indù, a quelle musulmane e poi inglesi – dove musica e danza erano affidate alle donne ma erano praticate anche dai re e dai guerrieri; musica e danza nei templi medioevali e moderni, i palazzi degli dei attorno ai quali ruotava la vita delle città; la scena cittadina, con le processioni sacre e regali e le varie forme di intrattenimento. Ma anche un’analisi delle idee estetiche che le arti dello spettacolo dovevano esprimere e veicolare: le ragioni e le finalità delle arti, il rapporto con le cosmogonie e l’analogia con i culti e le pratiche spirituali. E, ancora, il rapporto delle arti con le forme naturali, in particolare quelle della vita vegetale. Inoltre, un’esposizione degli elementi grammaticali fondamentali e delle principali forme musicali e coreutiche. Una ricerca sulla musica e la danza che restituisce a queste arti la centralità che avevano nel pensiero e nella società dell’India di tutte le epoche.



ANNA LUISA SPAGNA inizia la ricerca sulla danza classica indiana (Odissi e Chhau di Seraikella) nel 1995. Suoi scritti sono apparsi sulle riviste “Melissi” e “In Corso d’Opera”. Con il nome Racconti del Corpo sviluppa una ricerca fra danza e pedagogia legata al tema del femminino.
È coreografa e danzatrice negli spettacoli di Sutra - Arti Performative, presentati in diverse rassegne e festival in Italia e all’estero.

PAOLO PACCIOLLA inizia la ricerca sulla musica classica indiana (Dhrupad Pakhawaj) nel 1995. Ha pubblicato la monografia Il pensare musicale indiano (Besa, 2005). Suoi scritti sono apparsi sulle riviste “Melissi”, “In Corso d’Opera” e negli Atti del XI, XII e XIII Convegno Nazionale di Studi Sanscriti, tenutisi a Milano (2002), Parma (2004), Roma (2006).
Compone ed esegue le musiche per gli spettacoli di Sutra - Arti Performative, presentati in diverse rassegne e festival in Italia e all’estero.

giovedì 30 ottobre 2008

martedì 28 ottobre 2008

Diana Lary e La Repubblica Cinese






Diana Lary
La Repubblica Cinese
Cina: il gigante orientale che fa paura al mondo



Nel Ventunesimo secolo, la Cina sta emergendo da decenni di guerra e rivoluzioni per entrare in una nuova era. Ma il passato ossessiona ancora il presente. Gli ideali della Repubblica Cinese, fondata quasi un secolo fa dopo 2.000 anni di dominazione imperiale, ancora oggi sono le basi della Cina moderna tesa verso l’apertura e la modernizzazione. Attraverso una vivida descrizione dell’era della Repubblica, Diana Lary ne traccia la storia dalle origini, nel 1912, alla caduta di Nanchino, dall’era dei signori della guerra alla guerra civile con l’Armata di liberazione popolare terminata in sconfitta nel 1949. Il libro, arricchito da biografie di personaggi illustri, proverbi cinesi, storie d’amore, poesie e numerose illustrazioni, è la lettura ideale per capire finalmente un Paese ricco di fascino, ma assurto alle cronache internazionali di oggi per le sue numerose contraddizioni e zone d’ombra.

Traduzione di Daniela Ingrosso.


Diana Lary è docente di storia al Centro di Ricerca Cinese della University of British Columbia.

domenica 26 ottobre 2008

In memoria di Oriana Fallaci



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giovedì 23 ottobre 2008

Dora Albanese - La ragazza sordomuta

Edith allunga la piccola mano verso il cappotto di uno di quei due signori; il suo corpo si sposta e tira - con un leggero sforzo, quasi impercettibile, tanto che non trattiene nulla tra le mani, nessun lembo di stoffa, nessun bordo di certezza.
- Prendetemi con voi, non vi darò fastidio, sono qui, proprio dietro i vostri corpi, tenuta al caldo dalle vostre ombre tanto cercate, non lasciatemi di nuovo al sole, non spostate il passo di un solo centimetro, avvolgetemi, non girate l’angolo senza prima voltarvi, accorgetevi di me, vi prego, sono a un passo da voi -.
Le ombre dei due signori si dividono, aprendosi come si apre un sipario, lasciando di nuovo Edith al centro del palcoscenico, sotto il sole della grande vetrata dell’orfanotrofio.
La piccola resta ferma con le mani nelle tasche del grembiulino di stoffa a fiori, fatto su misura da suor Diletta - quella che le offrì un abbraccio per coprirla dal freddo dell’abbandono.
Piega la testa rosso rubino verso la spalla destra, mentre il sole sembra non voler tramontare mai dai suoi capelli; piuttosto succhiare, succhiarne tutto il colore, come per trarne energia - mentre i raggi, che le cingono il capo, appaiono come un’aureola infiammata.
Edith s’inginocchia e prega, unisce le mani, puntandole verso il cielo, alza il volto bagnato dal sole - ha sul viso i lineamenti di una giovane madonna, forse la madonna dei boschi, quella madre che, almeno una volta nella vita, ogni uomo ha provato a immaginare.
Due gocce le scivolano pastose dagli occhi, percorrendo la curva del naso, e fermandosi proprio sotto le mascelle.
Ha gli occhi scuri; e il naso, che le cade dritto, si unisce in una punta ottocentesca, che fa appena ombra sui contorni delle labbra superiori, rendendo quasi invisibile il piccolo porro cresciutole proprio là, al centro delle labbra.
Ora una ruga si impone - come fosse una cicatrice - e le divide la fronte a metà.
È triste, di una tristezza che ha trovato nido nella sua cassa toracica, nel suo ventre, in ogni vertebra, come un elemento in più, da non poter mai più eliminare.
Erano già cinque anni che era chiusa in quell’orfanotrofio, cinque anni che aveva smesso di parlare e di sentire.
Sua madre era una cantante, e raccontava sempre a Edith che, se avesse avuto una figlia, l’avrebbe chiamata come il suo idolo, Edith Piaf, e che l’avrebbe fatta diplomare al conservatorio, le avrebbe fatto suonare il pianoforte, le avrebbe messo a disposizione ogni mezzo per poter divenire una cantante affermata; suo padre, invece, era un insegnante di latino, contrario ai discorsi di sua moglie, che destabilizzavano la fanciulla, portandola in un mondo incantato, troppo lontano dalla quotidianità.
Edith, dunque, era in mezzo a due sogni: quelli paterni, che la vedevano dietro una scrivania, ad insegnare latino; e quelli materni, che la vedevano cantare nei migliori locali parigini. Di certo la sua estrazione borghese non l’avrebbe fatta morire di fame, nel caso questi sogni non si fossero avverati, e la piccola ne era consapevole, perciò annuiva senza fatica.
Sua madre - Caterina, italiana d’origine - era una donna giovane, bella, di una bellezza panica, rossa nei capelli e scura negli occhi, longilinea e accattivante nella voce; aveva sposato il suo insegnante di latino per sfida e per capriccio, pentendosene subito dopo - erano troppi gli anni che li dividevano, e troppe le diversità caratteriali.
Suo marito le impedì da subito di andare a cantare nei locali; non era bene che la moglie di un professore di liceo si esponesse in luoghi frequentati da gente così.
È proprio in uno di questi locali - frequentati di nascosto - che conobbe Giorgio, un chitarrista italiano. Non passò una settimana da quell’incontro che i due si innamorarono e decisero di lasciare la Francia e tornare in Italia.
Caterina, dunque, lasciò da parte tutti gli altri sogni, visto che il suo - quello di poter cantare in giro per il mondo, e di poter ritornare nella sua Italia - si stava appena avverando.
Cinque anni addietro abbandonò Edith davanti alla chiesa di Rue de la Fenac - la piccola allora aveva sei anni, ed era già troppo grande per dimenticare il tradimento materno.
Così svanì sua madre, percorrendo un viale alberato d’autunno - memoria senza più lineamenti, perché a rimanere è solo l’essenza. Ci vuole poco tempo per perdere la memoria di un ricordo.
Ad accoglierla fu proprio una monaca, suor Diletta, che poi le fece da balia all’interno dell’orfanotrofio.
Tutti sapevano che Edith era una bambina sordomuta, e tutti, specie i bambini, la evitavano, intimoriti da quell’ambiguità.
Indossava sempre la solita maglia nera con pallini bianchi, scarpette da ginnastica maciullate alle punte, e pantaloni neri corti alle caviglie, di una taglia in meno.
Le famiglie che frequentavano l’orfanotrofio - per scegliere quale giovane orfano prendere con sé - quando incontravano Edith restavano un po’ attoniti; la guardavano, le sorridevano, le dicevano parole dolci, giusto per sentirsi dei benefattori, per conquistare la sua benevolenza.
Gli esseri così incompleti sembra nascondano dei misteri, come fossero sacerdoti o angeli del Purgatorio - e l’uomo teme il silenzio sfingeo, e vorrebbe essere benedetto da questo mutismo contemplativo.
Edith allora li seguiva, con gli occhi e con i piedi; li seguiva e certe volte si aggrappava ai loro cappotti, tirando, come unico gesto di approvazione, ma poi tutti andavano via, spaventati, verso bambini dai colori meno vivaci, con la carnagione limpida e gli occhi del cielo.
Utilizzava la notte, Edith, per sciogliere la lingua dai crampi. Andava in bagno, tappava con una pallina di carta igienica il buco della serratura, e cantava sottovoce le canzoni della sua infanzia, quelle di Edith Piaf, che piacevano tanto a sua madre. E proprio in quei momenti pensava a lei, e a quei sogni rimasti incastrati in un cassetto, a quel padre che non l’aveva mai cercata, e che forse si era rifatto una famiglia. Tutta la rabbia di colpo esplodeva, riempiendole il viso di macchie rosse, annebbiandole la vista, facendola tremare.
Suor Diletta le dava sempre dei tranquillanti prima di andare a dormire - gliel’aveva prescritti la neurologa dell’istituto -.
Nessuna suora sapeva parlarle; solo suor Diletta sapeva farlo, con certi movimenti veloci e sincopati delle mani, con smorfie labiali, e con sorrisi. Alcune monache provavano ad offrirle balocchi, altre si limitavano ad accarezzarle i capelli, ma nessuno era riuscito ad entrare nel suo segreto, a nessuno mai era venuto il sospetto.
Nessuno si preoccupava d’interrompere certi discorsi, quando passava Edith.
Una di quelle notti si sentì morsa dal nervosismo; la lingua le faceva male più del solito, i crampi erano intensi e duravano molto, le orecchie le fischiavano. Aveva appena gettato i tranquillanti nel water, dato la buonanotte alla suora amica, messo la vestaglia, atteso sotto le lenzuola che il sonno arrivasse, ma i dolori erano acuti, le labbra le tremavano, la palpebra destra le pulsava, era in preda a un terrore panico, e non sapeva cosa fare, aveva appena rifiutato di prendere i tranquillanti - quelle pillole la indebolivano, le facevano girare la testa -.
Iniziò a credere di essere diventata pazza, di non avere più nessuna possibilità di salvezza, nessuna via d’uscita dal suo segreto, del quale era diventata prigioniera.
Un segreto che somigliava sempre più a una condanna.
Aprì la finestra della stanza. Vide la brina sugli alberi e sulle foglie, e anche le strade, ricoperte da uno strato sottile di giaccio, brillavano sotto i fanali delle macchine, che improvvisamente rallentavano.
Quella era proprio una di quelle notti fredde e buie quando la luna sembra non arrivi a illuminare tutta la terra. Edith decise di fare un giro nell’istituto, e magari fermarsi a recitare di fronte alla statua di Sant’Anna un atto di dolore, ma una voce, che somigliava a un lamento - sembrava fosse un fantasma che veniva a punire la sua anima menzognera - iniziò a farsi sentire, a penetrare nella mente di Edith.
La fanciulla fu pervasa da un tremore che la bloccò di spalle al muro. Persa e rassegnata, iniziò a pregare a voce bassa; pregava, chiedendo perdono per quelle menzogne, per aver mentito a tutti, anche a suor Diletta - per averle negato ogni parola di ricompensa. E mentre pregava, il lamento si faceva sempre più acuto.
Si accorse, respirando ansiosamente nel silenzio, di una porta socchiusa - era da quella porta che fuoriuscivano i lamenti. Lamenti che nessuno avrebbe mai raccolto, vista la collocazione del ripostiglio. Si affacciò e vide. Dunque nessun fantasma si stava lamentando, ma un bambino, fatto di pelle e di ossa. Un bambino che chiedeva alla suora, che era nella stanza con lui, di lasciarlo in pace, di smetterla di molestarlo. Un bambino di dodici anni - un ragazzo, ormai - che da chissà quanti anni subiva in silenzio le molestie sessuali di quella monaca perversa, che lo costringeva ogni notte a fare l’uomo.
Edith, già molto provata, tirò un respiro, bloccandolo negli addominali, si piegò sulle ginocchia, slacciò i lacci e ne prese uno in mano, diede un calcio alla porta, e gridò, gridò con tutta la forza che aveva in corpo:
“Basta, basta, basta…”.
La suora si voltò; era spaventata da quella figura diabolica, da quel segreto svelato; cercò allora di aggredirla, di soffocare le grida improvvise della bambina. Invece il ragazzo, rannicchiato in un angolo, rivestiva le sue nudità ferite. Edith afferrò la suora dai capelli, la strattonò a terra, e le strinse il laccio in gola, finendola così - finendola tra le urla del ragazzo, e quelle della Madre Superiora che, però, accorse troppo tardi.
Qualcuno gridò al miracolo, quella notte: la sordomuta aveva gridato, la sordomuta aveva sentito.

fonte www.musicaos.wordpress.com
fonte iconografica www.mayraglouis.wordpress.com

martedì 21 ottobre 2008

Alanis Morisette - Underneath



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lunedì 20 ottobre 2008

Mariella Mehr












Mettimi tra i centri,
come fossi una di loro
ancora incolume, non fuoco sulfureo
nient’altro che un istante sconosciuto.

Liberami dalla fame di memoria
spediscimi lontano senza messaggi
una volta almeno per la durata di una fitta al cuore
come la storia del fiore di nessuno.

Appoggia bene il tuo piede,
lungo le mie linee della vita
la pietra lucida ti serba rancore.

Le mie mani, una treccia di fiato,
non sanno niente dell’affidabilità
di radici con un domicilio,
derubate di ogni terra
conducono una vita d’aria.

Provvista di speciali garanzie,
che nessuno capisce, non
la mia ombra, non il mio
cuore, oggetto ritrovato,
così mi consegno, ancora goffa
a piedi migranti.

fonte iconografica Rainews 24
fonte www.vertigine.wordpress.com

domenica 19 ottobre 2008

Immaginaria 08


La fabbrica dei gesti
riparte con
"IMMAGInARIA"
Laboratorio Coreografico/Teatrale
condotto da

Silvia Lodi e Stefania Mariano

Lezione Prova
Venerdì 31 ottobre 2008


Formazione e ricerca dove scoprire, apprendere, creare, lavorare sulla danza ed il teatro attraverso il training fisico e gli elementi fondamentali della dinamica, peso e respirazione. E ancora: l'improvvisazione personale e di gruppo, la composizione, il lavoro con il testo, gli elementi di base della danza contemporanea e l'uso della voce.

Il laboratorio è rivolto a danzatori, attori e musicisti provvisti di esperienza, e a chiunque abbia la curiosità e l'interesse a scoprire e risvegliare le proprie capacità sensoriali, espressive e creative. L'obiettivo del lavoro è espandere e coltivare la propria capacità di comunicazione con gli altri e con lo spazio. Il laboratorio intende, attraverso gli strumenti pratici e teorici, sviluppare una coscienza corporea con l'intento di far dialogare i due linguaggi: teatro e danza. Inoltre, si vuole approfondire il piacere della ricerca, concedendosi il giusto tempo per analizzare e scavare, svelando un percorso che va sempre più in profondità.

Sono previsti percorsi di studio per due livelli: principianti - avanzati. Il laboratorio si concluderà a giugno 2009, presentando al pubblico un primo studio sul lavoro svolto.

La lezione PROVA è fissata per venerdì 31 ottobre 2008, dalle 18.00 alle 20.00, con l'obbligo di prenotazione.

Max 12 partecipanti.
Non si può effettuare più di una lezione prova gratuita.
La frequenza è bisettimanale.

Per prenotarsi: chiamare il n. 347.5424126
fabbricadeigesti@gmail.com

Le donne della settimana n.4



Questa settimana le donne segnalate sono quelle della redazione di IO Donna del Corriere della Sera. Un impegno tutto al femminile per il glamour, il pop, la cultura.
Continuate così!!!

Paola Scialpi



Fiorenza Vallino
Bruna Rossi
Federica Plazzotta
Manuela Campari
Maria Grazia Ligato
Elena Marco
Maria Laura Giovagnini
Maria Grazia Borriello
Gloria Ghisi
Simona Gioia
Paola Piacenza
Cristina Lacava
Nicoletta Pennati
Anna Maria Speroni
Marina Terragni
Elda Urban
Emanuela Zuccalà
Renata Ferri
Eleonora Crugnola
Antonia Miori
Silvia Meneguzzo
Marina Malavasi
Alessandra Corvasce
Vanessa Caputo
Floriana Colangelo
Chiara Levi
Mila Malavasi
Francesca Merlo
Eva Orbetegli
Annalisa Milella
Alessandra Bottino
Leah Cosgriff
Imma Vaccaro
Stefania Maroni
Cristina Milanesi
Federica Levi
Susanna Legrenzi
Lia Ferrari
Antonella Caldirola
Claudia Fiori
Amabilia Nichetti
Barbara Tasso
Giulietta Pierri
Cinzia Locatelli
Giada Franchi
Valentina Avon
Benedetta Bagni
Annamaria Bernardini De Pace
Margherita Biscaretti Di Ruffia
Pia Bonanni
Raffaella Cagnazzo
Laura Caldarola
Paola Calvetti
Gabriella Canevari
Galluccio
Virginia De’ Flor
Rachele Enriquez
Giusi Ferrè
Margherita Fronte
Milena Gabanelli
Giovanna Greco
Emilia Grossi
Julie Kosossey
Serena La Rosa
Daria Manzini
Mariateresa Montaruli
Maria Laura Rodotà
Daria Scolamacchia
Guia Soncini
Paola Trombetta
Silvia Vegetti Finzi
Monica Vignale
Michela Vecchiato
Luciana Savarese
Maria Francesca Sereni
Rossana Braga



fonte iconografica www.centroartivisivepescheria.it
opera di Cristiano Pintaldi

sabato 18 ottobre 2008

Barbara Lanati vista da Ilide Carmignani ...ancora sulla traduzione



Traduttori trasparenti dentro il labirinto del testo

Da Emily Dickinson a Angela Carter, un percorso di riflessione critica che si porge come una sorta di autobiografia culturale nel libro dell'americanista Barbara Lanati «Pareti di cristallo», da poco uscito per Besa

Ilide Carmignani

Scriveva nei primi anni Quaranta l'insigne linguista Benvenuto Terracini, costretto dalle leggi razziali a un esilio argentino, che il traduttore deve trovare la ragione espressiva della propria fatica non annullando la propria personalità - cosa manifestamente impossibile - ma rendendola trasparente, riducendola «a una parete di cristallo che lascia vedere senza deformazioni ciò che sta dall'altra parte»: un testo, una lingua, una cultura irrimediabilmente diversa. Soltanto in questo modo riuscirà a evitare che le sue simpatie, i suoi interessi spirituali, lo attraggano con decisione verso il suo autore, facendogli correre il rischio di non essere capito, o all'inverso, solo così saprà vincere un «troppo vivo sentimento di fratellanza verso i lettori», peccando d'infedeltà nei confronti dell'originale.
Da allora gli studiosi hanno dimostrato non solo quanto sia problematica questa ideale trasparenza, ma anche come esista un gran numero di fattori, che vanno ben oltre la «personalità» del traduttore, in grado di influire sulle strategie di mediazione - siano queste source oriented o target oriented, come diremmo oggi - a partire dal tipo di rapporto esistente fra le due culture coinvolte, dal genere di testo e dalla funzione che esso avrà all'interno del sistema socioculturale in cui è destinato a collocarsi, dal prestigio dello scrittore, dalla natura del committente e, non ultimo, dal lettore cui ci si rivolge.
Insomma, molta acqua è passata sotto i ponti della traduttologia, ma l'immagine della parete di cristallo continua ancora oggi a esercitare un grande fascino, tanto da dare il titolo al raffinato volumetto sulla traduzione letteraria, di recente edito da Besa, in cui Barbara Lanati raccoglie quattro saggi dedicati a Gertrude Stein, Henry James, Angela Carter e Emily Dickinson, scrittori da lei acutamente indagati e amorevolmente restituiti in italiano nel corso degli anni (Pareti di cristallo, prefazione di Gianni Vattimo, Besa 2007, pp.151, euro 13).
Studiosa e docente di letteratura anglomericana, Barbara Lanati rivela di essere giunta un po' per caso alla traduzione letteraria, affascinata sui banchi del liceo dal rigore delle lingue classiche e poi sedotta, giovane ricercatrice appena rientrata dagli Stati Uniti, dalla stessa Emily Dickinson che Beniamino Placido le aveva proposto di tradurre per Savelli. Da allora si sono susseguiti svariati autori sulla sua scrivania di fine interprete - W.Carlos Williams, la poesia americana degli anni Ottanta, Ferlinghetti, Amy Lowell, Edgar Allan Poe - in un «lungo (e periglioso) viaggio» che ha affiancato quello dell'insegnamento e della critica, ma sempre e solo nella felice sinergia di un rapporto elettivo: tranne rarissime eccezioni, dichiara Barbara Lanati, la sua etica professionale la spinge a tradurre solo scrittori che lei stessa ha suggerito o sui quali ha lavorato a lungo.
Il volume, naturalmente, non vuol essere affatto un manuale, né fornire indicazioni pratiche, ma ci offre preziosi esempi di quel cammino verso l'opera, di quel lavoro di ricontestualizzazione letteraria e analisi testuale, che è premessa essenziale all'esercizio della riscrittura, il tutto all'interno di un percorso di riflessione critica che si porge quasi come una sorta di autobiografia intellettuale.
«Pochi giri di parole» sintetizza Barbara Lanati, «il traduttore serio deve sempre essere anche "critico"; deve entrare cioè nei labirinti verbali e filosofici di un testo, armato di coraggio, di umiltà e passione nel senso letterale del termine». Ed è così, per esempio, che per tradurre Angela Carter, la studiosa decide di inseguirne lo sguardo: visita la Brown University, dove la scrittrice ha lavorato, percorre le strade dove lei è andata a spasso, legge quello che la Carter ha letto, trova infine anche il modo di incontrarla, con l'obiettivo di intrecciare con l'autrice un dialogo che non sia soltanto implicito nella pagina tradotta.
Il rigore con cui Barbara Lanati accosta un testo da trasporre si rispecchia nelle sue attente analisi di traduzioni altrui, in particolare nel contributo sulle due versioni italiane del Ritratto di signora di Henry James. «Ogni traduttore - si sa - è responsabile delle proprie scelte, ma soprattutto dei propri errori» scrive, e molti traduttori tremeranno, consapevoli non solo di quanto sia facile commettere errori ma anche di come, agli occhi altrui, sia spesso impossibile distinguerli dalle scelte, specie se lo sguardo si chiude nell'orizzonte dell'originale.
Come afferma Gianni Vattimo nella sua prefazione, il testo da tradurre non è mai solo «un oggetto che sta di fronte al traduttore in una sua immobile e cristallina verità. È sempre un appello che chiede di essere ascoltato - certo in ciò che è e vuole essere; ma sempre anche da orecchie storicamente determinate», le orecchie di questo o quel traduttore, lettore privilegiato che fa della sua lettura l'oggetto della lettura altrui, pur sapendo che come ogni altra forma di interpretazione, compresa la critica letteraria, la traduzione non potrà mai esaurire l'originale. Forse, come scriveva Henry James, «the whole of anything is never told».

Da Il manifesto del 08 Gennaio 2008

giovedì 16 ottobre 2008

Sabine Spielrein vista da Stefania Erroi

Affetta da violente manifestazioni isteriche con tendenze anoressiche suicidali, la giovane Sabina Spielrein ha personificato il primo caso clinico trattato e curato dal dottor Jung con il metodo freudiano. Metodo che sostituiva ai sistemi costrittivi – quali docce fredde, camicie di forza e catene ai letti – la terapia della parola, della libera associazione di idee e dello scambio emozionale.

Oltre che paziente, Sabina diventa amante (tra i due scoppia anche la passione e l'amore, ma Jung è sposato) e allieva del dottor Jung e, a sua volta, psicanalista.

Estremamente convinta dell’importanza di insegnare la libertà di pensiero e l’educazione sessuale anche ai bambini più piccoli, fonda a Mosca il primo laboratorio di Solidarietà Internazionale noto come Asilo Bianco (cosiddetto per il colore con il quale erano dipinti i suoi interni), con la ferma intenzione di sperimentare “un’altra educazione” per creare “altri” bambini.
Con le sue stesse parole: «Pare sia la prima volta che una psicoanalista viene messa a dirigere un asilo infantile. Ciò che vorrei dimostrare è che se si insegna la libertà ad un bambino fin dall'inizio, forse diventerà un uomo veramente libero... ci metterò tutta la mia passione».
Sarà poi la storia con la morte di Lenin, la dittatura di Stalin e l’arrivo delle truppe naziste a deciderne il destino: verrà infatti uccisa nel 1942, a soli 57 anni, presso la sinagoga di Rostov insieme alla sua bambina.

Tratto da «Lei vede l’amore dappertutto vero?» «È la forza che genera il mondo»


(special tank to Edita e Ripensandoci)

martedì 14 ottobre 2008

Ilide Carmignani e i suoi autori invisibili

Il volume edito da Besa editrice raccoglie una serie di interviste sulla traduzione letteraria a scrittori, studiosi, editori, ma soprattutto a quella fascia di professionisti che danno voce italiana ai più importanti autori internazionali, da García Márquez a Naipaul, da Pennac a McEwan, da Coetzee a Ghosh. Il taglio, dallo stile fresco e immediato, raccontando il particolare mestiere del traduttore letterario, racconta anche la storia dei libri che leggiamo, di come sono nati e cambiati nel lungo viaggio dallo scrittore al loro autore “in seconda”, da altre culture alla nostra. Non mancano inoltre gli aneddoti sugli scrittori tradotti e le storie di vita vissuta in casa editrice.



ILIDE CARMIGNANI ha tradotto, per le maggiori case editrici italiane, autori come Borges, Cernuda, García Márquez. Nel 2000 ha vinto il I premio di Traduzione Letteraria dell’Istituto Cervantes. È consulente per la traduzione letteraria della Fiera del Libro di Torino.





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Intervista a Stefano Donno

domenica 12 ottobre 2008

L'Ofisauro di Gioia Perrone secondo Mauro Marino

E’ poesia che rotola questa, di parole capriola.
Presa dal fantastico racconto che sfonda il giorno, la lingua, ogni ordinario.
Parola gioco e vertigine: accolta, presa da un flusso visionario mischia luoghi e spostamenti e fughe.
Senti voci che strillano rauchi ‘tanghi’ al non so. A ciò che manca!
Trovi il taxi di De Niro lungo la strada dei guaglioni e Sakamoto, con un play, fa bolla, nella folla! Sotto sotto puoi sentire l’Enzo Jannacci e squillanti d-e-j-a-v-u, nei non sense, nei paradossi, nei voli. Ma confusi confusi, solo un infastuazione come di nuvola… lei è più sottile, perspicace, furbetta nella svolta, nel tagliare l’angolo per fare piroette, capitomboli, salti e larghe risate con la lingua.
Poesia femmina! Stropiccio di lenzuola con i voglio e i vorrei, gli “oh!” d’ogni stupore e quelli del venire.Quelli del correr via e dell’affronto.
Quelli che il tempo non lo sanno intero, lo fanno, nella rincorsa mischiando respiri con gli affanni.
Gambe velate di rosso e un gonnino tagliano la città dentro rincorse che sempre trovano “senso”! Ed è motivo di gloria nell’epoca del “non”, del mai trovare un senso! Cosa non da poco in questo incivile senza verso, fare parola, dire leggerezza!
Li la chiave per amare il poetare di questa poeta! Il suo indeterminato, il volo.
“Camminavo come un esercizio di equilibrio, / una ricerca lessicale in un calderone di sera / che era il profumo dei cappotti / e il riflesso di sguincio sulla vetrina. / Nulla che fosse umido, sanguigno, ma di opalescente vaghezza / un grigio passo di bacinella.” Scrive.
“…Un grigio passo di bacinella. Ma cos’è? Che significa, che vuole dire?”
Chiede, accanto, il correttore! Cosa rispondere? “Ma nulla, nulla o chissà cosa!”
Rimani nello stupore, nel ritmo, nel piacere, nel paradosso. Sei certo che la significazione, debba essere della poesia? E se far chanson è puro abbandono? Lasciarsi, inseguirsi sino al punto, all’esclamativo, al punto di domanda?
Così è questo scrivere: un perdimento! Un tempo fermato e fugace! L’impressione d’un bianco e nero. Della nostalgia che brucia e scalda e smuove… “E’ da giorni che te lo dico (....). Ho fatto sogni. Ho preso a trascrivere i sogni, ma spesso non rimane che un senso di caos, un arruffarsi e nient’altro. Se potessi fotografare anche quelli... Tu mi dici di questa malattia di scattare le foto, mi dici che scatto e scatto, ma quand’è che vivo lo scatto, quand’è che mi faccio scattare? Ho bisogno di fermare tutto. Ho bisogno di fermare, fermare. Anche Brunel si è fermato, non vuole fare nulla senza un mio accenno, senza un destino e un progetto. Ma io non tesso progetti, non sono progettuale, io butto, io spargo, al massimo, per rimediare, fermo. E Brunel mi dice tutto ma senza l’audio. Con le Malboro e il bavero alzato. (...) con quale gelido distacco il passante alla mia destra noterà il mio corpo muoversi, sparire dietro la pupilla?”.

Il Ritorno dell'Ofisauro
prima raccolta di versi di Gioia Perrone
per la collana di poesia I voli de I Libri di Icaro



fonte www.salentopoesia.blogspot.com
http://www.flickr.com/photos/allintensivepurposes/2519015943/

sabato 11 ottobre 2008

venerdì 10 ottobre 2008

Flavia Piccinni, Adesso tienimi. Recensione di Luciano Pagano

Flavia Piccinni, con “Adesso tienimi” è sicuramente riuscita nell’intento di offrirci uno spaccato veridico di una situazione, quella delle periferie e nella fattispecie di Taranto, comune a molti giovani. Non solo. Con il suo romanzo è riuscita laddove molti altri potrebbero fallire per eccesso di zelo (vedi alla voce: pedanteria) o di intellettualismo. Quest’ultimo elemento, in particolare, risulta evidente. La giovane età dell’autrice, unita ad un’esperienza di scrittura - oltre a diversi racconti questo è oggettivamente il suo secondo romanzo - fanno accorgere il lettore del fatto che la Piccinni conosce le cose che racconta e non le scrive soltanto per scandalizzare. Il ragazzo di Martina è morto da poco, lo scenario in cui si muove la ragazza non è dei più belli, ma lei ci ha fatto l’abitudine e di certo non emerge per buona parte del romanzo, nessun desiderio di riscatto, semmai l’ambizione ad un’atarassia generica dentro cui resistere al mondo, isolati, coltivando le poche cose che offrono una certezza di tranquillità. L’ippodromo, un giro al porto, il tentativo di pensare ad altro, non c’è nessuna intenzione di indagine sociologica, nel romanzo della Piccinni, semmai una sorta di prossemica della sensualità, fatta di descrizioni di sguardi, gesti, piccoli riti, un esempio? La scena in cui la protagonista raggiunge la casa del suo ragazzo prima del funerale. Una altro esempio? I quattro amici che scrivono il loro nome su un lucchetto che poi legheranno a una catena. Il rapporto di Martina con la madre Adriana è da pari. La chiama e la immagina sempre per nome, i suoi genitori le fanno fare quel che vuole, come se non andare a scuola di sabato fosse un delitto, ci si chiede piuttosto perché Martina continui a frequentare, visto l’interesse. È chiaro che lo sguardo di Martina risulta essere quello più lucido e al tempo stesso obiettivo di tutto il romanzo “A volte non capisco perché le famiglie si ostinino ad andare d’accordo, a creare un senso di quiete che non esiste”. La stessa lucidità nei confronti dei professori, che non risparmiano considerazioni ad alta voce “Gli insegnanti sbraitano, fanno domande, commentano, spiegano. Ripetono che le lezioni, anche se obbligatorie, accolgono spesso asini travestiti che farebbero meglio a lavorare nei campi o alle pompe di benzina.” La risposta è forse che la scuola, nonostante tutto, resta l’unico collante sociale rilevante, in ogni condizione, prima dell’ingresso nel mondo del lavoro. Una cosa che viene in mente è che il mondo di “Adesso tienimi” è popolato di arresi che hanno ceduto alla sconfitta anche quando non hanno sperimentato la perdita, professori di liceo arresi all’impossibilità di fare sforzi per migliorare gli studenti, figli arresi difronte all’inadeguatezza di genitori e parenti. Quando la professoressa di greco rivolgerà un’attenzione a Martina, semplicemente per chiederle come sta, ciò costituirà una novità momentanea, la prima volta in tredici anni di scuola dell’obbligo che un professore si interessa di lei. I protagonisti adolescenti di “Adesso tienimi” sono riusciti a individuare il codice di sopravvivenza per la città e per i suoi luoghi, perfino Tamburi che insieme a Paolo VI e Taranto 2 è considerato da tutti una pattumiera, si rivela essere uno dei luoghi più belli, con un mare cristallino che ai Caraibi se lo sognano. La generazione di eBay e degli iPod che si incrocia con problematiche vecchie come il dopoguerra. Il linguaggio e lo stile utilizzati da Flavia meritano un discorso a parte. Anzitutto c’è un’evoluzione sensibile nei confronti delle sue precedenti prove narrative, soprattutto i racconti; acerbi nella lingua anche se già individuati, cioè ognuno caratterizzato dalla resa di uno spaccato di mondo proprio, in miniatura; in “Adesso tienimi” il periodare è preciso, il lettore è spinto a visualizzare rapidamente ciò che accade, lo spazio lasciato al pensiero e alla para-noia è ristretto, teso in un “ciò che è” che è “ciò che accade”, identico a ciò che viene narrato. La gravità delle situazioni non viene certo sminuita da questa rapidità. “Adesso tienimi” è un colloquio con una persona assente, una finzione di monologo costruita con se stessi, chiave di volta di un amore che ci unisce a qualcun altro e, allo stesso tempo, da modo di conoscerci su un ritmo in crescendo che diventa pulsante, fino sciogliere nel finale la sua tensione.

Adesso tienimi, Flavia Piccinni, Fazi Editore

fonte www.musicaos.wordpress.com
rivista on line diretta da Luciano Pagano

martedì 7 ottobre 2008

SE CARAVAGGIO HA ASPETTATO 400 ANNI...di Maria Zimotti

A Roma è ottobre.
Sono quelle stagioni di mezzo in cui le città eterne danno il meglio.
Questa Roma di oggi è come Parigi del marzo di due anni fa.
Qui nel piazzale antistante la Galleria Borghese è il bianco che predomina, come al giardino delle Tuileries.
Con le dovute proporzioni.
Paris è sempre Paris, con la sua magniloquenza.
Le pietre eterne comunque, quelle dei monumenti, trattengono i ricordi.
E favoriscono il gioco dei rimandi.
Se guardo fisse le balaustre della terrazza e mi estraneo dal resto potrei essere di nuovo lì.
Assieme a lui però, non sola.
Ma qui oggi per me c'è anche l'emozione di un'attesa e il cuore mi batte.
Caravaggio l'ho lasciato a Parigi due anni fa.
Con il suo dipinto più bello: la morte della Vergine.
La nuca della Maddalena illuminata è di una tenerezza infinita.
E' la bruciante pietà umana di Caravaggio.
Al confronto del Louvre il Museo Borghese è un salottino ed è curato come una casa.
Subito al secondo piano, alla Pinacoteca.
Seguo il mio percorso personale.
Visito con calma e sono solo preliminari.
Perchè io ho un appuntamento oggi.
Alla fine di tutto, dopo aver messo alla prova le mie conoscenze sui vari stili, sentendo la commozione man mano fermarsi ogni tanto sul cupo Guercino o sulle belle veneziane di Tiziano mi accorgo che lui non c'è.
Non mi sono munita di guida ergendomi a cicerone di me stessa e alla fine del percorso nelle sale non ho trovato neanche un dipinto di Caravaggio.
Vedi la saccenza a cosa porta.
Scendo giù ed è un tripudio di sculture e di visitatori.
La scultura è più viva della pittura fende l'aria, abita l'aria.
Fende l'aria Proserpina ma la pietra la tiene.
Non si è liberata dal marmo più che dalle potenti braccia di Plutone.
Gli sfrontati putti del Bernini assomigliano tanto agli adolescenti che amava dipingere Caravaggio ma lui ancora non c'è.
Temo di essermi sbagliata, temo che magari anche stavolta ho avuto la sfortuna che i quadri che mi interessa vedere siano stati dati in prestito da qualche altra parte.
Finchè l'assembramento in una sala mi fa capire che sono lì.
Spezzettata in tanti quadri la sua furia non ha lo stesso calore della Morte della Vergine.
E' anche l'illuminazione.
Troppo sole per la Madonna dei Palafrenieri posta in un angolo vicino alla finestra.
E' una tela con dimensioni di un certo rispetto e come tutte le Madonne vuole essere al centro dell'attenzione.
E mi ricordo di un'altra Madonna che come una bambina timida stava al centro di una sala degli Uffizi.
La Maestà di Giotto è una Madonna semplice.
Arriva dal Trecento semplice gioioso e laborioso di Firenze.
Come una di quelle donne timorose di Dio dagli abiti semplici ti guarda franca senza peccato.
Così, arrivo ai dipinti di Caravaggio con la testa già da un'altra parte.
Colpa dei miei piedi stanchi ma anche di quel mio cuore che batte per l'appuntamento.
Vado sulla terrazza e mi arriva blando il profumo dei pini che costeggiano l'ombroso viale sterrato che parte dal Museo.
Devo incontrare un amico.
Uno di quegli amici che Internet permette di avere come nell'Ottocento.
I carteggi con la posta elettronica permettono questo.
Permettono incontri di anime senza sottoporsi ai rituali dettati dalla società.
Così ci incontriamo e in questi incontri la realtà è sempre diversa dall'idea.
O perlomeno è come la sala con le sculture e i visitatori.
E' l'idea che entra nel flusso della vita.
Ci parliamo ora con la nostra quotidianità, con il nostro timore di mostrare le nostre debolezze perchè dal vivo non si misurano le parole, cercando le migliori, non si può schiacciare il tasto Canc.
Poi ci si guarda negli occhi e si ritrova la nostra essenza, quella che ci ha portato a confidarci da mondi lontani.
E così Caravaggio ha aspettato quattrocento anni per il suo incontro con me.
Il mio amico ha aspettato di meno.
Potenza del villaggio globale.
Gli incroci di latitudini temporali e spaziali, quelli che si respirano nelle stazioni.
Le stazioni sono come i musei.
Luoghi eterni ma futuristicamente in perenne movimento.
Il mio amico mi abbraccia prima che io salga sul treno e il contatto è stabilito.
Il contatto con la realtà.
Ma sono sempre gli occhi che contano.
E' gentile e mi dice che i miei occhi parlano di me, di quello che sono veramente.
Come gli occhi infantili della Maestà di Giotto e gli occhi di Caravaggio nell'autoritratto come testa di Golia: gli occhi di chi ha penetrato il dolore della vita.

lunedì 6 ottobre 2008

Chiara Curione racconta del suo amore per la scrittura

La mia passione per la scrittura è cominciata sin da quando ero adolescente e scrivevo racconti e poesie su un diario segreto. Poi la vita concreta mi ha portata su altre strade: sposata a vent’anni ho continuato a dare lezioni di ripetizione ai ragazzi delle scuole medie e ai bambini delle elementari per dieci anni.
Mio marito non voleva che viaggiassi per lavorare e così continuavo a non perdere il contatto con la scuola e con lo studio attraverso questo lavoro che ho lasciato quando mio figlio è diventato più grande e quando ho dovuto assistere mia madre malata.
Ho cominciato a scrivere il mio primo romanzo in questo periodo: dovevo trovare un momento tutto mio per distaccarmi dalla realtà triste, con continue visite mediche per mia madre e problemi insormontabili che lei mi creava, avendo bisogno di essere seguita come una bambina. Il mio ruolo di figlia si era invertito ad essere quello di madre. Cercavo di godermi l’infanzia e la fanciullezza di mio figlio, ma questo non bastava, così ho trovato rifugio nella scrittura e ancora una volta un rifugio segreto.
Quando scrivevo ero sola in casa, nessuno sapeva della mia passione, né amici né parenti, temevo il loro giudizio e credevo che mi avrebbero consigliato di smettere considerando questa passione una follia. Senza computer usavo una vecchia macchina da scrivere che faceva un rumore infernale ogni volta che spingevo un tasto. Quando terminai il romanzo lo inviai a un premio letterario e, con mia grande sorpresa, mi proposero la pubblicazione dell’opera. Il libro dal titolo “La sartoria di Matilde” fu pubblicato nel 2000.
Da allora sono uscita dall’ombra dedicandomi a tempo pieno alla scrittura, collaborando con il laboratorio di lettura della biblioteca di Gioia del Colle e pubblicando alcune fiabe storiche su Federico II, in ultimo il romanzo sul brigantaggio dal titolo “Un eroe dalla parte sbagliata.”
Scrivere è stata un’esperienza unica, ho conosciuto gente nuova, soprattutto scrittori come me. Grazie al mio primo libro sono diventata socia di un sito internet di autori ed editori e il testo fa parte del catalogo Danae, sul sito partecipo alla lettura incrociata che consiste nella valutazione dei testi di altri scrittori. Poi è uscito il mio libro di fiabe storiche su Federico II, con questo sono diventata più conosciuta come scrittrice, il testo è stato adottato in alcune scuole, ci sono stati progetti di lettura a riguardo e si sono fatte anche alcune rappresentazioni. Infine, a giugno di quest’anno, Besa ha pubblicato il mio romanzo sul brigantaggio che spero susciti interesse non solo nei ragazzi per cui è stato scritto, ma anche in un pubblico adulto. La storia si sviluppa su due livelli narrativi: presente e passato. Nel presente un ragazzino tredicenne fugge dalla ricca nonna di Milano per raggiungere la nonna del Sud che gli racconterà la vita del sergente Romano. Nel passato i fatti storici sono attinenti alla realtà e ambientati nel periodo post-unitario. Si tratta di una storia di cui si parla poco nei testi scolastici, ma che è importante riscoprire. In tutti i miei romanzi è forte il richiamo alla storia locale e alla nostra identità che mi auguro non vada perduta.
Sono nata nel 1962 e, facendo un bilancio ad oggi, come donna moderna sento di aver fatto sempre delle scelte difficili, almeno controcorrente. Il fatto di essermi sposata presto, di aver deciso di dedicarmi principalmente alla famiglia, mi fa scoprire adesso che per questo ho avuto più tempo a disposizione per seguire la mia più grande passione e contemporaneamente essere sempre presente come madre e come moglie.
La mia scommessa di diventare scrittrice nata di nascosto è diventata una realtà.





Chiara Curione è autrice di UN EROE DALLA PARTE SBAGLIATA (Besa editrice)


Un romanzo in forma dialogica, in cui il presente e il passato si intersecano narrando l’atavico divario tra Nord della penisola e Mezzogiorno. Un bambino conteso tra nonni paterni pugliesi e nonna materna milanese ascolta un racconto di tempi lontani: durante la campagna per l’Unità d’Italia, un romantico antieroe del sud, Pasquale Romano, sacrifica l’amore agli ideali, combattendo tra le fila dei “briganti” la guerra contro i Savoia e l’esercito piemontese. Una causa persa ma combattuta con le ragioni del cuore, a difesa dell’identità borbonica e di un mondo definitivamente spazzato via dal processo di unificazione, imposto al meridione con il fuoco ed il sangue.

Un’opera agevole ed intensa, un racconto passionale che mette in discussione falsi miti e luoghi comuni sul presunto debito di gratitudine del Mezzogiorno nullafacente e parassita nei confronti del ricco e laborioso Nord Italia.

CHIARA CURIONE (Bari, 1962) è autrice di racconti e romanzi e collabora con il laboratorio di lettura della biblioteca di Gioia del Colle.
La sua opere principali sono “La sartoria di Matilde” (2000) e una raccolta di fiabe storiche su Federico II, edita nel 2005, che ha offerto lo spunto per alcune rappresentazioni teatrali.

giovedì 2 ottobre 2008

U2 e la storia della musica




posted on youtube by implorius


Un video bellissimo degli U2, noto complesso pop rock, molto, molto suggestivo, poetico, affascinante in ogni senso. Buon ascolto!

Paola Scialpi