sabato 18 ottobre 2008

Barbara Lanati vista da Ilide Carmignani ...ancora sulla traduzione



Traduttori trasparenti dentro il labirinto del testo

Da Emily Dickinson a Angela Carter, un percorso di riflessione critica che si porge come una sorta di autobiografia culturale nel libro dell'americanista Barbara Lanati «Pareti di cristallo», da poco uscito per Besa

Ilide Carmignani

Scriveva nei primi anni Quaranta l'insigne linguista Benvenuto Terracini, costretto dalle leggi razziali a un esilio argentino, che il traduttore deve trovare la ragione espressiva della propria fatica non annullando la propria personalità - cosa manifestamente impossibile - ma rendendola trasparente, riducendola «a una parete di cristallo che lascia vedere senza deformazioni ciò che sta dall'altra parte»: un testo, una lingua, una cultura irrimediabilmente diversa. Soltanto in questo modo riuscirà a evitare che le sue simpatie, i suoi interessi spirituali, lo attraggano con decisione verso il suo autore, facendogli correre il rischio di non essere capito, o all'inverso, solo così saprà vincere un «troppo vivo sentimento di fratellanza verso i lettori», peccando d'infedeltà nei confronti dell'originale.
Da allora gli studiosi hanno dimostrato non solo quanto sia problematica questa ideale trasparenza, ma anche come esista un gran numero di fattori, che vanno ben oltre la «personalità» del traduttore, in grado di influire sulle strategie di mediazione - siano queste source oriented o target oriented, come diremmo oggi - a partire dal tipo di rapporto esistente fra le due culture coinvolte, dal genere di testo e dalla funzione che esso avrà all'interno del sistema socioculturale in cui è destinato a collocarsi, dal prestigio dello scrittore, dalla natura del committente e, non ultimo, dal lettore cui ci si rivolge.
Insomma, molta acqua è passata sotto i ponti della traduttologia, ma l'immagine della parete di cristallo continua ancora oggi a esercitare un grande fascino, tanto da dare il titolo al raffinato volumetto sulla traduzione letteraria, di recente edito da Besa, in cui Barbara Lanati raccoglie quattro saggi dedicati a Gertrude Stein, Henry James, Angela Carter e Emily Dickinson, scrittori da lei acutamente indagati e amorevolmente restituiti in italiano nel corso degli anni (Pareti di cristallo, prefazione di Gianni Vattimo, Besa 2007, pp.151, euro 13).
Studiosa e docente di letteratura anglomericana, Barbara Lanati rivela di essere giunta un po' per caso alla traduzione letteraria, affascinata sui banchi del liceo dal rigore delle lingue classiche e poi sedotta, giovane ricercatrice appena rientrata dagli Stati Uniti, dalla stessa Emily Dickinson che Beniamino Placido le aveva proposto di tradurre per Savelli. Da allora si sono susseguiti svariati autori sulla sua scrivania di fine interprete - W.Carlos Williams, la poesia americana degli anni Ottanta, Ferlinghetti, Amy Lowell, Edgar Allan Poe - in un «lungo (e periglioso) viaggio» che ha affiancato quello dell'insegnamento e della critica, ma sempre e solo nella felice sinergia di un rapporto elettivo: tranne rarissime eccezioni, dichiara Barbara Lanati, la sua etica professionale la spinge a tradurre solo scrittori che lei stessa ha suggerito o sui quali ha lavorato a lungo.
Il volume, naturalmente, non vuol essere affatto un manuale, né fornire indicazioni pratiche, ma ci offre preziosi esempi di quel cammino verso l'opera, di quel lavoro di ricontestualizzazione letteraria e analisi testuale, che è premessa essenziale all'esercizio della riscrittura, il tutto all'interno di un percorso di riflessione critica che si porge quasi come una sorta di autobiografia intellettuale.
«Pochi giri di parole» sintetizza Barbara Lanati, «il traduttore serio deve sempre essere anche "critico"; deve entrare cioè nei labirinti verbali e filosofici di un testo, armato di coraggio, di umiltà e passione nel senso letterale del termine». Ed è così, per esempio, che per tradurre Angela Carter, la studiosa decide di inseguirne lo sguardo: visita la Brown University, dove la scrittrice ha lavorato, percorre le strade dove lei è andata a spasso, legge quello che la Carter ha letto, trova infine anche il modo di incontrarla, con l'obiettivo di intrecciare con l'autrice un dialogo che non sia soltanto implicito nella pagina tradotta.
Il rigore con cui Barbara Lanati accosta un testo da trasporre si rispecchia nelle sue attente analisi di traduzioni altrui, in particolare nel contributo sulle due versioni italiane del Ritratto di signora di Henry James. «Ogni traduttore - si sa - è responsabile delle proprie scelte, ma soprattutto dei propri errori» scrive, e molti traduttori tremeranno, consapevoli non solo di quanto sia facile commettere errori ma anche di come, agli occhi altrui, sia spesso impossibile distinguerli dalle scelte, specie se lo sguardo si chiude nell'orizzonte dell'originale.
Come afferma Gianni Vattimo nella sua prefazione, il testo da tradurre non è mai solo «un oggetto che sta di fronte al traduttore in una sua immobile e cristallina verità. È sempre un appello che chiede di essere ascoltato - certo in ciò che è e vuole essere; ma sempre anche da orecchie storicamente determinate», le orecchie di questo o quel traduttore, lettore privilegiato che fa della sua lettura l'oggetto della lettura altrui, pur sapendo che come ogni altra forma di interpretazione, compresa la critica letteraria, la traduzione non potrà mai esaurire l'originale. Forse, come scriveva Henry James, «the whole of anything is never told».

Da Il manifesto del 08 Gennaio 2008

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