Parlare di Roberta Calò e del suo lavoro dal titolo “Scavamilanima” edito per i tipi di Giuseppe Laterza, risulta agevole per la chiarezza degli intenti poetici che sono alla base dell’intera raccolta e per la immediatezza e forza dei versi che l’autrice manifesta senza veli ai suoi lettori. Parliamo di una dimensione lirica dove i sensi sono all'erta e l’amore sviluppato in ogni sua dimensione, e latitudine, tanto che la parola diviene strumento di scandaglio ideale per potenziare il senso stesso del rapporto e del dialogo amoroso che vive del suo essere corpo, pelle, vita. In questi versi sopravvivono solo piccoli ma essenziali punti di riferimento (l’amato è non solo l’oggetto del sentimento ma forza deflagrante eros e sensualità; l’amante invece è universo generante il canto delle due voci narranti e narrate) indispensabili alla sopravvivenza dell’io poetico dell’autrice che proprio per il contenuto essenziale ed esistenziale del canto prodotto cerca di superare solitudine e desolazione con uno sguardo lucido che racconta una realtà come tante, una storia d’amore come tante, ma proprio perché simile a molti altri universi di relazioni amorose, richiede delicatezza, sensibilità, eleganza, e uno sguardo in grado di produrre una scrittura lacerante, lacerata, mai paga.
Roberta Calò è una giovane poetessa che non si risparmia nel suo darsi al pubblico, e non ama nel modo più assoluto fare economia del suo poter essere senza limiti, considerando che si tratta anche della prima raccolta poetica. E devo dire che sebbene si tratti di un’opera prima, non vi ho trovato solo entusiasmo, e determinazioni tipiche dell’esordio, della giovane età o di altre caratteristiche che comunque rientrerebbero in altri criteri di analisi extra-testuali, di chi insomma è alle prime armi in un mondo come quello della Poesia rischioso, rischiosissimo soprattutto se si pensa all’enorme produzione di pseudo-poesia che oggi riempie gli scaffali di molte librerie nel nostro paese. L’autrice è sulla strada giusta, quella della maturità poetica che sa cogliere l’universale nel particolare, ovvero quella capacità di saper essere nei cuori di chiunque parlando delle proprie esperienze e di rendere tutto questo entrando nel respiro del verso e nel suo ritmo. Ingenuamente (perché ancora lontana da un’autoconsapevolezza di poter divenire grande con la sua Poesia) nella sua prefazione al volume, spiega il miracolo di un sentimento che diviene per lei incanto cosmico: l’amore, quello di cui tutti parlano, da tutti vissuto e a volte perso, di cui comunque non si finirà mai di dire e di trattenere nel cuore e nei gesti. Roberta Calò è in grado di trascinare il lettore in un turbinio di versi caldi, a volte “very hot”, a volte delicati come le nuvole, ma gravidi tutti di inarrestabile furore, e gemito che toglie il respiro. Sono d’accordo con quanto scrive Lino Patruno della giovane autrice dicendo che la sua scrittura è perennemente oscillante “fra torrido erotismo e ingenuo candore”. Ed ecco allora che Roberta Calò ci farà immergere in tracciati di pelle e gola, sudore, sesso, e sentimento, tra il senso dell’oblio e la ricerca di un’identità corporea, sciolta e ricomposta incessantemente dalla parola, quasi in un’estasi orgasmica che brucia gli attimi. Un lavoro che si lascia apprezzare nel suo parlare e scrivere di amore e di morte e forse … di altre sciocchezze!
(recensione di stefano donno)
L'acqua scivola sul mio corpo
come la tua mano avanza dentro di me
e goccia dopo goccia
ci incontreremo
nell'abbraccio di un'onda
Quando l'arte diventa un mezzo per raccontarsi e per mostrarsi autentici, anche nel farsi cogliere da un lieve rossore, dato da un piccolo moto dell'animo o dal palpitare del cuore per un amore ricambiato. Quando con l'arte si cerca di attirare l'attenzione verso tutto ciò che sembra anonimo e che ci sfugge. Quando l'arte è denuncia delle condizioni della donna, e non solo. Quando l'arte è poesia e colore.
venerdì 25 dicembre 2009
lunedì 21 dicembre 2009
"Buone da sposare" di Adriana Maria Leaci (Il Filo editore)
Non sono mai stata una femminista come quelle degli anni Sessanta, che partecipavano alle manifestazioni e che poi bru¬ciavano i reggiseni in piazza. L’estremismo di ogni idea mi ha sempre causato disgusto. Mi ritengo piuttosto una giusti¬ziera precoce, dato che una volta capito, sin da piccola, che in questo mondo le donne spesso sono martiri della società in cui vivono, mi sono subito ribellata. Partendo dalla scuola elementare, dove ho avuto un compagno, rivale spietato, che pretendeva di avere voti superiori ai miei, e per ottenere ciò non misurava termini; per poi scontrarmi, tutt’ora, con quei soliti discorsi che giustificano il mio modo di pensare solo perché sono una donna. Ho cercato continuamente di difendere, a spada tratta, non una probabile superiorità – ci sarebbe da aprire un trattato su questo – ma l’uguaglianza di diritti, nonché i doveri tra uomini e donne che si amano veramente, essenziali perché la discri¬minazione non sfori la dignità umana.
Quand’ero solo un’adolescente, quando facevo i primi passi da adulta, cercando anche i consensi di quelli più grandi di me, era abituale sentire la frase “sei tanto brava che ti puoi già sposare”. Già. Osservando e misurando le faccende dome¬stiche si stabiliva − e si stabilisce ancora oggi − quanto una ragazza fosse adatta al matrimonio. Come se quel traguardo fosse l’obiettivo unico nella vita di una donna; come se, all’in fuori di quello, nulla rimanesse, nulla valesse veramente la pena per restare vivi in questo mondo. Certo è che l’unione dell’uomo alla donna è basilare per la sopravivenza della specie, ma vorrei tanto che la scienza non ci ponesse sempre al confronto, limitandosi soltanto a chiarire i nostri dubbi e dandoci risposte ai nostri problemi. Sempre la stessa scienza usa la parola uomo, dal latino homo, come identità anche per noi donne (in latino sarebbe mulier, poco sonoro, poco significante, poco conosciuto persino nel¬le poesie latine), nonostante la sua partecipazione alla pro¬creazione non l’impegni per più di quindici minuti, per ogni parto, anche gemellare. Affrontiamo il dolore fisico, ognuna con la sua soglia di sopportazione, però ci rifacciamo con le altre gioie della vita. Fu inflitto dal Creatore su Eva e per tut¬te le generazioni di donne, nei secoli dei secoli, si partorisce con dolore − eccezion fatta per quelle che hanno conosciuto la meravigliosa invenzione dell’anestesia epidurale − e ogni mese ci ricordiamo del peccato originale di quell’ancestrale e cara parente. Per molto tempo siamo state relegate alla figura tenera di madri e nonne, rappresentate in dipinti dai maggiori artisti, senza altri scopi se non quelli di badare alla prole e al nido fa¬migliare. La storia dell’umanità purtroppo racconta più degli eroi, morti per difendere un ideale politico o di pensiero. Sono stati loro a tramandare i valori più decantati dai libri. Sull’eroi¬ne, esclusa Giovanna D’Arco e qualcun’altra del genere, por¬tate al sacrificio di se stesse, si fanno poche menzioni. Nel secolo XXI invece l’evoluzione della donna spaventa, soffoca, disorienta. È successo tutto troppo in fretta perché fosse compreso senza traumi. I ruoli si sono invertiti. Gli uo¬mini sono divenuti le vere vittime. Questa non vuol essere, assolutamente, una manifestazione contro gli uomini, anzi. Cerco di riflettere. La vita non avrebbe senso se non fossimo in coppia sulla faccia della terra. Siamo esseri bisognosi uno dell’altra e le sofferenze sono superabili proprio perché vissute insieme. Mi piace pensare e vivere con un compagno con cui condivido e divido ogni evento della mia esistenza. Durante la stesura di questo libro sono passata spesso dal racconto, puro e semplice, a un’analisi personale del signifi¬cato della persona-donna, fino ad arrivare al titolo principale. Ora mi trovo a voler quasi giustificarlo, forse perché io stessa comprenda la scelta di questo percorso di scrittura.
Come è solito in me, cerco una descrizione dei sentimenti più profondi, attraverso le scelte di vita che fanno le persone, puntando sui vari interessi e sui valori inculcati dalla società. Determinati comportamenti provengono dall’ambiente in cui si vive, quindi è sufficiente nascere in un continente piutto¬sto che in un altro, per trovare la differenza di sviluppo delle donne. Anche il clima incide enormemente sull’umore uma¬no. È la mentalità però che regge il destino di ognuno ed è quest’aspetto che vi farò conoscere. Descrivo donne del passato, educate nel rispetto della figura maschile, a loro servizio, talvolta nell’idolatria, altre volte nella ribellione, ma sappiamo che tante nel mondo si trovano anco¬ra a vivere le stesse cose, solo in Occidente. Questo vuol’essere un omaggio alle donne che ho cono¬sciuto e dalle quali ho tratto l’ispirazione, non solo per scrive¬re. Donne che mi hanno insegnato e trasmesso il vero senso dell’esistenza e che sono diventate una parte di me. Donne inventate, sognate, invidiate e amate. Donne. Siamo gli esseri che generano l’umanità, e dobbia¬mo ancora conquistare il mondo.
Adriana Maria Leaci è nata il 29 agosto del 1959 in Brasile, da genitori italiani. A venticinque anni ha lasciato il Paese ed è venuta a vivere in Italia, dove si è sposata e vive tuttora. Lavora come impiegata nella Pubblica Amministrazione. Nel 2006 ha pubblicato Con gli occhi di mio padre, Luca Pensa Editore
dalla premessa - su concessione dell'autrice
Quand’ero solo un’adolescente, quando facevo i primi passi da adulta, cercando anche i consensi di quelli più grandi di me, era abituale sentire la frase “sei tanto brava che ti puoi già sposare”. Già. Osservando e misurando le faccende dome¬stiche si stabiliva − e si stabilisce ancora oggi − quanto una ragazza fosse adatta al matrimonio. Come se quel traguardo fosse l’obiettivo unico nella vita di una donna; come se, all’in fuori di quello, nulla rimanesse, nulla valesse veramente la pena per restare vivi in questo mondo. Certo è che l’unione dell’uomo alla donna è basilare per la sopravivenza della specie, ma vorrei tanto che la scienza non ci ponesse sempre al confronto, limitandosi soltanto a chiarire i nostri dubbi e dandoci risposte ai nostri problemi. Sempre la stessa scienza usa la parola uomo, dal latino homo, come identità anche per noi donne (in latino sarebbe mulier, poco sonoro, poco significante, poco conosciuto persino nel¬le poesie latine), nonostante la sua partecipazione alla pro¬creazione non l’impegni per più di quindici minuti, per ogni parto, anche gemellare. Affrontiamo il dolore fisico, ognuna con la sua soglia di sopportazione, però ci rifacciamo con le altre gioie della vita. Fu inflitto dal Creatore su Eva e per tut¬te le generazioni di donne, nei secoli dei secoli, si partorisce con dolore − eccezion fatta per quelle che hanno conosciuto la meravigliosa invenzione dell’anestesia epidurale − e ogni mese ci ricordiamo del peccato originale di quell’ancestrale e cara parente. Per molto tempo siamo state relegate alla figura tenera di madri e nonne, rappresentate in dipinti dai maggiori artisti, senza altri scopi se non quelli di badare alla prole e al nido fa¬migliare. La storia dell’umanità purtroppo racconta più degli eroi, morti per difendere un ideale politico o di pensiero. Sono stati loro a tramandare i valori più decantati dai libri. Sull’eroi¬ne, esclusa Giovanna D’Arco e qualcun’altra del genere, por¬tate al sacrificio di se stesse, si fanno poche menzioni. Nel secolo XXI invece l’evoluzione della donna spaventa, soffoca, disorienta. È successo tutto troppo in fretta perché fosse compreso senza traumi. I ruoli si sono invertiti. Gli uo¬mini sono divenuti le vere vittime. Questa non vuol essere, assolutamente, una manifestazione contro gli uomini, anzi. Cerco di riflettere. La vita non avrebbe senso se non fossimo in coppia sulla faccia della terra. Siamo esseri bisognosi uno dell’altra e le sofferenze sono superabili proprio perché vissute insieme. Mi piace pensare e vivere con un compagno con cui condivido e divido ogni evento della mia esistenza. Durante la stesura di questo libro sono passata spesso dal racconto, puro e semplice, a un’analisi personale del signifi¬cato della persona-donna, fino ad arrivare al titolo principale. Ora mi trovo a voler quasi giustificarlo, forse perché io stessa comprenda la scelta di questo percorso di scrittura.
Come è solito in me, cerco una descrizione dei sentimenti più profondi, attraverso le scelte di vita che fanno le persone, puntando sui vari interessi e sui valori inculcati dalla società. Determinati comportamenti provengono dall’ambiente in cui si vive, quindi è sufficiente nascere in un continente piutto¬sto che in un altro, per trovare la differenza di sviluppo delle donne. Anche il clima incide enormemente sull’umore uma¬no. È la mentalità però che regge il destino di ognuno ed è quest’aspetto che vi farò conoscere. Descrivo donne del passato, educate nel rispetto della figura maschile, a loro servizio, talvolta nell’idolatria, altre volte nella ribellione, ma sappiamo che tante nel mondo si trovano anco¬ra a vivere le stesse cose, solo in Occidente. Questo vuol’essere un omaggio alle donne che ho cono¬sciuto e dalle quali ho tratto l’ispirazione, non solo per scrive¬re. Donne che mi hanno insegnato e trasmesso il vero senso dell’esistenza e che sono diventate una parte di me. Donne inventate, sognate, invidiate e amate. Donne. Siamo gli esseri che generano l’umanità, e dobbia¬mo ancora conquistare il mondo.
Adriana Maria Leaci è nata il 29 agosto del 1959 in Brasile, da genitori italiani. A venticinque anni ha lasciato il Paese ed è venuta a vivere in Italia, dove si è sposata e vive tuttora. Lavora come impiegata nella Pubblica Amministrazione. Nel 2006 ha pubblicato Con gli occhi di mio padre, Luca Pensa Editore
dalla premessa - su concessione dell'autrice
giovedì 17 dicembre 2009
Senza Storie di Luisa Ruggio (Besa editrice)
“Senza Storie”, edito da Besa nella Collana “Nuove Lune” (pagg. 154, € 14,00), è l'ultima boutade che Luisa Ruggio ha donato, come altra parte di sé, ai suoi lettori. Trentatre racconti brevi. Credo poco alla numerologia e altre similari scienze e parascienze, ma se i numeri contano qualcosa (e io, l'ho detto o lo ripeto ancora, ci credo all'unica condizione che rivelino dei contenuti...), allora tra la scrittura di questa raccolta di “Storie” di numeri ne troverete quanti volete: tutti quelli della vita e, financo, della morte. Ché non si può discernere la prima ignorando la seconda. Ché si può apprezzare in tutte le sue espressioni la vita soltanto se non s'incorre nella presunzione di credersi immortali. Ché l'unica immortalità è data dal vivere sino in fondo e autenticamente ogni istante prima della fine. La fine, così, può segnare un altro inizio. E non c'è nulla di religioso (in senso canonico) in quanto affermo. Se volete, paradossalmente, è quanto di più religioso abbia mai detto. Ché la religione (scevra da pregiudizi, definizioni e timori) è cogliere le contraddizioni dell'esistenza. Anzi delle esistenze. E scommetterci sopra. Donando il meglio di sé. Ch'è quel che si è! Luisa Ruggio è tante cose, tante esistenze, tanti respiri, molte delusioni, parecchie gioie, una manciata di felicità, qualche nodo irrisolto, angoli bui, piazze piene di luce e Amore. Ma, soprattutto, è scrittura. Ché tutto quel ch'è Luisa, tutto quel che c'è d'intorno a Luisa, tutto quel che dentro Luisa s'agita, tutto diventa scrittura. E la scrittura, come espressione di quel ch'è stato, ch'è e che ancora sarà del Suo vivere, è il meglio di Luisa, è il meglio che può dare a chi vuol leggerla... Con quest'unico dubbio: non so sino a che punto la Sua scrittura è vissuto e quando -invece- diventa desiderio di vita o premonizione del divenire. Di storia in storia, esergo dopo esergo, citazione dopo citazione, troverete nei racconti che leggerete tutto quel che l'Autrice ama di più e che di più la fa soffrire: dal cinema alla letteratura, dalla musica alla pittura, in una sequenza di giorni dal sapore autentico in ogni soffio di canzone, in ogni scena rubata a un film, in ogni dialogo estrapolato da un litigio tra vicini, in ogni istante di tristezza fermato in una nota, in ogni momento di violenza quotidiana, in ogni ricordo che non può promettere più nulla, in ogni contatto che mai più sarà, in ogni cosa di quest'andare verso l'Amore che, sì (haivogliaadire!), c'è, dannatamente c'è, grazie a dio c'è! Attraverso infiniti passi c'è. È tante cose. E una soltanto. Il segreto per comprendere questo e il luogo in cui dimora, Luisa Ruggio lo conosce e lo rivela, sol che si sappia trovarlo nella Sua scrittura. Già, una volta ancora: la scrittura: quella di chi, come me, vorrebbe essere capace di rendere (come mezzo per dare se stesso a chi continua -a ogni sole che sorge, come a tutte le notti che arrivano- a dipingere di luce questo schifoso triste barattare l'anima con la mercificazione imperante dell'acquista usa e riempi i cassonetti dell'immondizia... e del tutto a ciò sotteso e/o teleologicamente connesso...), vorrebbe distillare parole per disvelare un'altra via possibile, senza la presunzione d'indicarne il cammino. Luisa Ruggio possiede questo segreto. Cercatelo nei racconti di questo libro, il più bello scritto dall'Autrice, proprio per la scrittura in cui è reso e che non m'impegnerò a spiegare... sappiate, però, ch'è un distillato di parole. Un distillato di parole. Un distillato di parole. Ottenuto senza alcuna alchimia, ma dopo lungo procedimento iniziato con dolorosa spremitura di visioni, di ascolti, di pensieri, di letture, di momenti di colori diversi in cui predomina il porpora: quello della passione: quello che ti fa fare qualunque cosa in cui credi davvero come se fosse l'ultima che fai. Lo stesso delle parole usate da Truffaut per dire quel che aveva appreso da Rossellini: “O faccio questo film o crepo”.
Vito Antonio Conte
Vito Antonio Conte
sabato 12 dicembre 2009
Romanza di Zurigo. Mosaico eretico e visionario, di Francesca Mazzucato, Historica (Milano, 2009). Recensione di Nunzio Festa
L’ultimo libro di Francesca Mazzucato riempie alcuni vuoti dell’oggi. “Romanza di Zurigo”, infatti, tanto per cominciare prova nuovamente a porre un ponte con scritture e geni del passato, con scrittori e artisti. Da Joyce, per cominciare, passando per Canetti, ma senza sottovalutare Schwarzembrach, Chagall, come Giacometti e ovviamente Hessel. Con l’attenzione del monologo rivolta all’importanza e al peso formidabile dello scrivere e dunque della scrittura quale scelta di vita. Diciamo che la rilevanza maggiore dovrebbe essere data a James Joyce. Fino a leggere un luogo che pochi altri avevano letto, e farlo in un modo che in Italia non riusciamo a rintracciare. Zurigo è una città diversa da quella che si potrebbe immaginare. Non è solamente il bianco bancario e morticcio dei banchieri. Non è semplicemente i prezzi altissimi e tutto il male che significa per gli ultimi e i penultimi. Oppure la piatta calma d’un certo piattume. La città di Zurigo, spiega Francesca Mazzucato, ha una serie di pregi. Però, innanzitutto, si riparta dai vuoti riempiti. Pensando certamente che questi aspetti di Zurigo aumentati di visibilità e comunicazione sono appunto un vuoto non più vuoto. Perché quest’assolo di Francesca Mazzucato riesce a costruire un rapporto sentimentale profondo con grandi figure: cosa molto novecentesca, tra l’altro. Come la nuova prova letteraria della Mazzucato ricorda, non solamente a livello diaristico e legato all’amore voluto e voluto di sottofondo, che la scrittura tante volte è portatrice di demoni ed è demone essa stessa. E Francesca Mazzucato mette tutta se stessa in questa parte di volume, dove scatta fotografie alla sua intimità. Dove questi scatti valgono quanto quelli fatti alla Zurigo desiderata e alla stessa maniera si fanno accogliere da chi legge. “Romanza di Zurigo” è stato mettere insieme fiati d’una città da scoprire e anzi riscoprire, anime di poca gente eppure tutta simbolica e ognuna simbolica per tutto. Il mosaico, appunto, è eretico ma soprattutto visionario. Visionario però per lucidità e forza di passione. Eretico proprio per l’impegno d’immagini che non sono fuori dalla realtà ma che non sempre sono destinate a stare nelle vicende della realtà. Francesca Mazzucato, ancora una volta, dopo averci fatto amare Bologna, Budapest, Marsiglia, ci fa amare le città e un’altra città. Oggi ci fa innamorare, la Mazzucato, una quasi distantissima Zurigo. Ci mette Zurigo proprio nel cuore. Vicino vicino a dove da sempre è posizionata l’adorabile e sconvolgente scrittura di Francesca Mazzucato. Scrittura di questi tempi e di tutti i tempi, sorella di quella delle più grandi.
sabato 5 dicembre 2009
Non dire madre di Dora Albanese (Hacca edizioni)
Parliamo di un esordio. “Non dire madre” (Hacca edizioni), di Dora Albanese, scrittrice del Sud. Dora Albanese parte dalla maternità e dal concetto categoriale della creazione del sé, della creazione biologica con tutte le ricadute psicologiche del caso, della creazione di una mitopoiesi attorno al ground–zero di metamorfosi socio-culturali di un Sud postbellico: sullo sfondo una Lucania che non è paesaggio mitizzato o mitico per l’autrice, ma è una terra di nessuno dove il concetto stesso di madre si disintegra nei durissimi stili di una civiltà rurale feroce e terribile. Ancora tra le righe, in punta di penna, Dora descrive una Matera piccolo/borghese piatta, e annoiata che volutamente ha svuotato di senso la magnificenza e la miseria della sua tradizione, quella dei sassi. La scrittrice quasi poi per un’esigenza genetica e destinale affronta la maternità delle nuove generazioni, sospese tra i desideri di un’accogliente passato, caldo e protettivo tra gli affetti della memoria e delle tradizioni familiari, e il freddo e ipocrita paesaggio antropico di benesseri di facciata, nonché di goffi voli da tacchino – come direbbe Guccini – che cercano di rompere gli argini di una vita asfittica di provincia. Parliamo di racconti bellissmi e crudeli, come solo la verità del sentire e del cuore possono riferire, come solo un’indagine viscerale e obiettiva sul corpo non solo di madre, ma di donna e femmina può generosamente donare ad un lettore che vuole mettersi ancora in discussione. Secondo me a Dora Albanese non interessa solo il maquillage che cola impietoso sul viso di una donna nel tempo e nel trascorrere delle ore e dei giorni, e degli affetti e dei silenzi, l’odore del rispetto nonostante tutto … no, per questa scrittrice è importante altro: sono i sentimenti di sopportazione e di sacrificio che una donna deve costantemente sublimare a fare la differenza, sono le volute cecità sulle rughe e il buon senso, e quel voler quasi morire un po’ ogni giorno perché possa ritornare a splendere il sole sulle noie e paranoie di ogni giorno. Dora Albanese racconta dunque di un Sud, un’entità senza dimensione tra le pagine di questo libro, anche se compaiono nomi di paesi e cittadine come Stigliano e Matera. Un Sud dove le ragazze imparano a diventare madri ancora prima di una loro consapevolezza financo nella modalità di stendere i panni, un Sud dove le donne adulte cadono sugli avanzi sfilacciati del proprio tracciato biografico carico di dolore, nonne che ricordano antichi aborti, donne che spiano accese da un lieve bagliore di sensualità moraviana, uomini sui balconi; insomma, un mondo di persone in bilico tra crolli nervosi e semplici difficoltà di ogni giorno. Splendida poi la prosa in questo libro, bilanciata, elegante mai scontata. Come scrive Andrea Di Consoli nella presentazione del volume: “Non dire madre è un libro sul diventare grandi in assenza di grandezza; è un libro, cioè, sulla condanna e, al contempo, sull’impossibilità di essere “normali”; un libro, infine, sulla grigia miseria umana, ma anche sul dovere di rifondare la vita, di rinominarla, rimescolarla, riacciuffarla, magari sul binario morto dei nonni.”
(stefano donno)
(stefano donno)
martedì 1 dicembre 2009
Esce Separè di Annalisa Bari (Giuseppe Laterza editore)
Una Compagnia di Avanspettacolo in giro per l’Italia degli anni cinquanta. E una bambina, Elena, che, per una serie di circostanze, si trova a dover seguire la prima ballerina, sua zia Giorgia, unica parente rimastale. E’ la stessa Elena che, diventata adulta, racconta in prima persona quell’esperienza, ricostruendo storie e avventure, ambienti e atmosfere di un mondo scomparso. Vagoni di terza classe e stazioni di paesotti proletari, luride pensioni e squallidi cinema di periferia sono i retroscena di spettacolini pretenziosi dove luci e musica, piume e lustrini regalano quarantacinque minuti di evasione a molti che hanno ancora nell’anima le cicatrici della guerra, che faticano a trovare la loro porzione di benessere. E mentre l’Italia si risolleva ricostruendo e rinnovando, e il mondo dello spettacolo si apre a nuove forme, l’Avanspettacolo inizia la sua rapida e inesorabile agonia, tra le illusioni svaporate nella luce bianca del televisore. I nuovi divi e la nuova cinematografia, le rassegne canore, di bellezza, di moda, i rotocalchi, la pubblicità, la politica e lo sport, le auto e gli elettrodomestici: è un’intera nazione che si evolve sotto gli occhi opachi di chi non vuole accettare il cambiamento dei costumi, e quelli vivaci di chi prende la rincorsa verso il futuro. Giorgia e le sue compagne, tra l’aspirazione al successo e la voglia di famiglia, tra avventure fugaci e speranza di un grande amore, sono le ultime donnine di spettacolo additate ed emarginate dai benpensanti, oggetto di effimero piacere, non degne di rispetto e di giustizia. Il racconto leggero e lucido di Elena, filtra la memoria nebbiosa e selettiva dell’infanzia, rimane il distillato dei profumi, quelli stessi che nella passerella finale facevano sognare i giovani dei primi anni cinquanta.
Info: redazione@giuseppelaterza.it
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