Parliamo di un esordio. “Non dire madre” (Hacca edizioni), di Dora Albanese, scrittrice del Sud. Dora Albanese parte dalla maternità e dal concetto categoriale della creazione del sé, della creazione biologica con tutte le ricadute psicologiche del caso, della creazione di una mitopoiesi attorno al ground–zero di metamorfosi socio-culturali di un Sud postbellico: sullo sfondo una Lucania che non è paesaggio mitizzato o mitico per l’autrice, ma è una terra di nessuno dove il concetto stesso di madre si disintegra nei durissimi stili di una civiltà rurale feroce e terribile. Ancora tra le righe, in punta di penna, Dora descrive una Matera piccolo/borghese piatta, e annoiata che volutamente ha svuotato di senso la magnificenza e la miseria della sua tradizione, quella dei sassi. La scrittrice quasi poi per un’esigenza genetica e destinale affronta la maternità delle nuove generazioni, sospese tra i desideri di un’accogliente passato, caldo e protettivo tra gli affetti della memoria e delle tradizioni familiari, e il freddo e ipocrita paesaggio antropico di benesseri di facciata, nonché di goffi voli da tacchino – come direbbe Guccini – che cercano di rompere gli argini di una vita asfittica di provincia. Parliamo di racconti bellissmi e crudeli, come solo la verità del sentire e del cuore possono riferire, come solo un’indagine viscerale e obiettiva sul corpo non solo di madre, ma di donna e femmina può generosamente donare ad un lettore che vuole mettersi ancora in discussione. Secondo me a Dora Albanese non interessa solo il maquillage che cola impietoso sul viso di una donna nel tempo e nel trascorrere delle ore e dei giorni, e degli affetti e dei silenzi, l’odore del rispetto nonostante tutto … no, per questa scrittrice è importante altro: sono i sentimenti di sopportazione e di sacrificio che una donna deve costantemente sublimare a fare la differenza, sono le volute cecità sulle rughe e il buon senso, e quel voler quasi morire un po’ ogni giorno perché possa ritornare a splendere il sole sulle noie e paranoie di ogni giorno. Dora Albanese racconta dunque di un Sud, un’entità senza dimensione tra le pagine di questo libro, anche se compaiono nomi di paesi e cittadine come Stigliano e Matera. Un Sud dove le ragazze imparano a diventare madri ancora prima di una loro consapevolezza financo nella modalità di stendere i panni, un Sud dove le donne adulte cadono sugli avanzi sfilacciati del proprio tracciato biografico carico di dolore, nonne che ricordano antichi aborti, donne che spiano accese da un lieve bagliore di sensualità moraviana, uomini sui balconi; insomma, un mondo di persone in bilico tra crolli nervosi e semplici difficoltà di ogni giorno. Splendida poi la prosa in questo libro, bilanciata, elegante mai scontata. Come scrive Andrea Di Consoli nella presentazione del volume: “Non dire madre è un libro sul diventare grandi in assenza di grandezza; è un libro, cioè, sulla condanna e, al contempo, sull’impossibilità di essere “normali”; un libro, infine, sulla grigia miseria umana, ma anche sul dovere di rifondare la vita, di rinominarla, rimescolarla, riacciuffarla, magari sul binario morto dei nonni.”
(stefano donno)
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