Il lavoro di Marianna Lunardoni dal titolo emblematico “Alice non è più nel
paese delle meraviglie”, è un’opera interessante e degna di considerazione per
alcuni motivi. Primo fra tutti il ritmo e il respiro della scrittura,
incalzante, che tiene desta l’attenzione per tutte le 188 pagine del libro.
Secondo aspetto non meno importante è una certa padronanza nei “trucchi” del
mestiere circa la proposta scritturale e
narrativa, che rende l’autrice non semplicemente una “penna di mestiere”,
ma anzi autrice che si rivela come una discreta e felice sorpresa. Visi,
azioni, vite presenti nelle pagine di questo libro coinvolgono emozionalmente
in maniera così forte il lettore, da far rivivere sulla propria pelle tutto
come se fosse vera la finzione narrativa. Terzo aspetto e che può sorprendere il lettore che si imbatte
nella lettura di “Alice non è più nel paese delle meraviglie”, è una fresca
dote propria della Lunardoni di raccontare testi e contesti storici con una
capacità di sintesi propria del giornalismo d’inchiesta e un’abilità di
strutturare un plot di questo tipo che va al di là di un normale esordio. Il contesto geografico in cui si muovono i
protagonisti (da Annika a Corina, da Ray a Grethe sino ad Adrian) è l’Africa, e
per la precisione Johannesburg, la più
grande città del Sud Africa, una delle 50 maggiori aree metropolitane del
mondo, e la fonte in assoluto di un grande commercio di diamanti e oro, grazie
alla sua posizione sul ricco giacimento di minerali presente sotto le colline
di Witwatersrand. Scendendo ancor più nello specifico, si parla di Johannesburg e di Soweto, “città separata” dalla fine del
1970 fino al 1990, acronimo di "Comuni Sud-Occidentali ", la banlieu
di Johannesburg, ovvero un insieme di insediamenti alla periferia. Lunardoni
lavora di fino a mettere nero su bianco, attraverso gli occhi di Annika la
protagonista, tutte le aberrazioni di un
regime di controllo di massa fondato sulla supremazia della razza, la bianca
sulla nera. Supremazia dettata dalla paura ancestrale dei bianchi, di venire
schiacciati dalla volontà di lotta dei neri, per la giustizia e l’eguaglianza
sociale in Johannesburg. Lunardoni parla direttamente alla coscienza del
lettore, alla coscienza di chi sa quanto quella porzione di storia del genere
umano, che passa sotto il nome terribile di apartheid, sia stata forse determinata da oscuri giochi di potere
economico, di grande e incosciente spregiudicatezza da parte dei paesi infausti
colonizzatori, appartenenti al Commonwealth. La forza di un’operazione
narrativa di questo genere deve essere ravvisata anche nello scandaglio socio-antropologico che
l’autrice porta avanti, ed individuabile nella lotta silenziosa al razzismo
portata avanti – nel contesto delle vicende narrate – da parte di bianchi
illuminati, che rischiano la propria libertà, la propria incolumità pur di far
trionfare il diritto all’uguaglianza che appartiene a tutte le popolazioni del
mondo e prerogativa indispensabile di tutte le democrazie che si definiscono
tali. Ma anche nella descrizione della forza e della dignità solidarizzante
della cultura zulu, forza antagonista per eccellenza. Interessante anche
l’analisi in punta di penna dei movimenti di sinistra forti oppositori del
regime razzista di Johannesburg e l’intelligente richiamo ai padri putativi
della lotta antirazzista a Johannesburg da Nelson Mandela a Steve Biko.
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