Intervista a Pierluigi Mele, da Il lessico dell’illusione in Pierluigi Mele
Estratto di tesi di Laurea in Linguistica Generale. Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, Università del Salento A. A. 2005/2006.
Perché ha scelto di scrivere poesie?
La poesia è una forma dello sguardo, è più probabile che sia lei a cercarti. Probabilmente nasce quando pretende, per oscuri percorsi, il trasfigurato, il rimescolamento delle carte, lo scuotimento dei segni. Cresce allora per una sorta d’inquietudine, come a voler raschiare il fondo di un terreno. Come se la penna, per dirla con Seamus Heaney, valesse quanto la vanga del contadino. Ed è con la penna che un poeta scava.
Quanto è influenzata la sua poesia da altri generi artistici (teatro, cinema, musica)?
L’influenza è totale. Non ricordo se sia stato Alberto Moravia a sostenere che un poeta, quando è a contatto con l’arte, è in casa propria. Forse perché il suo codice espressivo non mira tanto alla comunicazione, all’informare un eventuale pubblico su accadimenti, opinioni, indici di gradimento e mode. Il datore di lavoro della poesia, la sua paga e la sua bolletta, è la bellezza. Che si muove ovunque, nei bassifondi come sul tram, in un quadro come nelle sale d’aspetto.
Come nascono i suoi versi?
Dal distacco. Questo cadenza le occasioni e le finzioni della scrittura, lasciando la possibilità alle cose di disperdersi per poi ritornare sotto una più definita veste nel corso del tempo. Il Tempo, questa religione laica di un poeta per me molto importante come Iosif Brodskij. Secondo il quale “chi considera la poesia un modo per passare il tempo, una “lettura”, commette un crimine antropologico, in primo luogo contro se stesso”.
Se lo scritto giornalistico abbraccia ed offre l’immediatezza della cronaca per subito stracciarla, la poesia penetra il contingente trasfigurandolo, prendendone le distanze, e fissa tanto il metafisico quanto il quotidiano con uno sguardo affilato nella metafora.
Come avviene la selezione e la combinazione delle sue parole?
Nessuna parola può essere lasciata al caso, anche se dal caso quasi sempre proviene. Le parole devi quasi sbiancarle per riuscire a penetrarle. L’agognata limpidezza dei versi è il risultato di un inesauribile flusso e montaggio, di attesa e ritorno a distanza allo scritto per verificarne i frutti. Un lavoro di sottrazione che punta all’essenza delle cose. Nello spazio brevissimo dei versi, devi contenere quel respiro, quella particella di vita che può essere detta solo in una forma e non in un’altra, con parole nette, definitive, lievi e pesanti insieme.
Crede che la poesia sia il veicolo più diretto per comunicare il suo pensiero?
Credo di sì. Come nella mia produzione teatrale, lo sguardo è sempre di natura poetica. Questo sguardo tende a sgombrare il campo dalle pastoie dell’Io e a misurarsi senza paraocchi col mondo. Parlare di un tramonto, di un’alba o di un autunno equivale ad affermare la vitalità che queste evidenze scatenano, evidenze a cui spesso non prestiamo ascolto proprio perché pensate “dovute”. È con queste evidenze della natura, ma non solo in queste chiaramente, che possiamo avvertire i segni di maturazioni e decadimenti nostri e della stessa lingua.
Un film o una musica per me sussiste soltanto se d’autore, perché espressione autentica di ricerca fatta con quello sguardo poetico senza il quale l’opera cinematografica o sonora risulta un prodotto industriale, legittimo ma destinato al consumo in serie. “D’autore” però non significa di noia. Parlo piuttosto della capacità di rinnovamento, di estro. Pensi all’architettura musicale di Bach, o alla forza di un certo quotidiano in Luigi Tenco. Ad Orson Welles, secondo me il più grande cineasta del secolo. Il suo incompiuto Don Chisciotte è genio allo stato puro. Spesso Welles ha portato sullo schermo storie della letteratura (Kafka, Shakespeare, Cervantes) e sempre con uno sguardo straordinario.
L’aspetto ludico, estemporaneo dell’atto poetico non è escluso da una visione d’autore, tutt’altro. Perché regna un elemento fondante sull’arte: l’istinto, o l’improvvisazione, per dirla col jazz. Per esempio: l’orecchiabilità e quindi il successo di molte canzoni del patrimonio musicale è stato concepito proprio dal guizzo dell’autore, che ha saputo pescare dal fondo il “bene” comune. Lei scuserà questo mio continuo richiamo alla musica, ma credo che appunto una canzone sia destinata a vivere più di tutti i libri che leggeremo.
Quanto incide nella sua scrittura l’ambiente salentino in cui vive e quanto il suo luogo straniero di nascita?
Il Salento non esiste. Il Salento rappresenta un luogo mentale dove si danno appuntamento i fantasmi, le sirene, le suggestioni d’infinite terre. Indica allora una terra che vive innanzitutto nei miti. Significa perdersi in racconti, suoni e colori; o nella luce meridiana, particolarmente amata da quello squisito editore (non ne nasce che uno per secolo) che è stato Vanni Scheiwiller.
Il Salento architettonico, terrestre, marino e culinario è di matrice culturale, non pubblicitaria. Origine comune, credo, a qualunque terra di mito, tanto per affermare non la supposta ed esclusiva identità del Salento, ma la sua alterità.
Quanto al luogo di nascita, esso assume la medesima caratteristica, in quanto luogo di sensi e di rimandi in perenne ritorno. Non posso tacere le suggestioni che il Nord ha esercitato in me: i profumi del verde, della neve, l’aria così folle del favonio, e un ordine, una disciplina che riguarda anche, senza portarla alle lunghe, la puntualità.
Esiste un “lettore-modello”?
Non sempre. Talvolta esiste un lettore immaginario, comune, della porta accanto con cui confidarsi, in un rapporto che vuole provocare sintonie sentimentali. Non credo che si scriva per dei club elitari, se la materia del poetare intende parlare con tutti. Altre volte questo “lettore invisibile” ha un nome, per esempio Oreste Macrì.
Presuppone nel suo destinatario un determinato tipo di formazione culturale?
Non puoi nascondere l’elemento formativo, l’educazione culturale di un lettore. Parlare con tutti è un voler parlare all’intelligenza del cuore, non è il vociare da comiziante. Piuttosto è la prova che fa coincidere lo scritto con il vissuto, che sono dimensioni di un’unica espressione esistenziale. La poesia può essere un fiato che s’insinua nei sensi del lettore, che lo istiga, lo accende e lo mette alla prova. Altre volte è un dialogare con la lingua stessa, in un corpo a corpo che può deliziare o sfinire.
Qual è il significato delle ellissi, delle allusioni, delle citazioni esplicite e indirette che compaiono nei suoi testi?
Forse tutti noi non facciamo altro che riscrivere. L’intera storia della letteratura è un interminabile processo di ri-montaggio. Io sono ciò che leggo e che rubo con gli occhi, esattamente come sono il figlio di una precisa coppia. Sono ciò che ascolto, che imparo e ricerco. Non si tratta di ostentare una presunta biblioteca, ma di abitare con entusiasmo la cultura. Vuol dire rendere testimonianza, tributare chi ha contato.
Chi sono gli “inquilini assenti” di cui parla in una delle sue poesie?
A volte sono questi fratelli o padri della scrittura perduti lungo la strada, che ritornano come dei gatti invisibili dalla finestra. Sono i poeti sconosciuti ai più, spesso scoperti per caso. Autori da ricordare nella maniera più semplice: parlandone, leggendoli ed invitando a farlo.
Ma non sono soltanto questi gli inquilini di cui lei mi chiede. Sono anche gli affetti privati da custodire e difendere con pudore contro il cattivo gusto dell’esibizione, dello svenevole sentimentalismo.
Qual è l’importanza e il senso delle immagini che ritornano più frequentemente nella sua poesia?
Pensi alla stanza a lei più cara della sua casa e agli oggetti qui riuniti, i libri, i monili, le coperte, quello che crede. Immagini ora che gli oggetti comincino a parlare o a muoversi come persone e animali, a provare dei sentimenti di noia, amore, solitudine etc. E che attraverso di essi lei riesca a vedere oltre la sua stanza, alla sua memoria per esempio. In questo gioco il senso canonico del tempo non regge più, perché lei si serve di un oggetto abitudinario come ad esempio un pettine per parlare non so, dei suoi quindici anni. Di momenti dell’esistenza che nella sua stanza non vivono più. Che non sono però sepolti, semplicemente sono altrove. Lei quindi può arrivare a suggerire un’idea del tempo solo attraverso delle figure, come il pettine. Estenda questo gioco dell’illusione a tutto il resto. Noterà come solo le figure contino davvero, di figure ci serviamo per sopravvivere all’oblio. Per questo motivo talvolta utilizzo figure che nel quotidiano non amo, come i gatti, ma che ti consentono come nessuno di provare quello sguardo in profondità di cui è fatta la poesia. È come se vivessi, in quello spazio d’invenzione, da gatto, arrampicandomi dove come uomo mi sfracellerei.
Che cosa significa essere un poeta oggi?
Forse essere scomodi. Oggi come ieri vuol dire non appagare né appagarsi di ipocrite seduzioni, siano queste di natura politica, sociale o esistenziale. Vuol dire coltivare l’inquietudine, scandagliare più che scandalizzare. Stupirsi delle idiozie così come dell’ignoto. E riservarsi un sorriso e una buona battuta, perché prendersi troppo sul serio non mi pare una cosa seria.
Lei sembra contestare indirettamente il sistema culturale attuale. Ipotizza nuovi sistemi? Quali?
Dico solo questa ovvietà: la mercificazione assoluta dei sentimenti sbattuti in prima serata come intrattenimento da deficienti, non è il prodotto di una scelta avulsa da tutto il resto. Se la televisione, per cominciare, si permette di profanare così impunemente la vita (in nome, tra l’altro, di una bugiarda democrazia interattiva), vuol dire che forse nella scuola, l’editoria, la politica, la famiglia qualcuno si è appisolato, si è preso una bella vacanza dalla rivolta. Credo che la cultura sia la rivolta permanente, vissuta attraverso i libri, la musica, il teatro, così come al supermercato, nei campi, in ufficio. La poesia non vive aristocraticamente sulla pagina. Quella della pagina non fa altro che scovare la poesia nascosta nelle pieghe del tempo.
Come definirebbe la sua poesia?
Le domande difficili le lascio a lei.
1 commento:
Io amo tutto il salento!
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