Gilberto Isella, critico sottile e pungente, in questa raccolta di poesie si
dimostra artista capace di coniugare l’armonia, il ritmo dei classici greci e
latini a un linguaggio assolutamente metaforico, ricco di profetici neologismi,
di parabole dal sapore futuristico, di assonanze - e dissonanze - spettacolari.
Mappe in controluce è dedicato a Saturno, il dio esiodeo che mangia i propri
figli, e che, quindi, crea e annienta. Eppure Saturno non è il protagonista del
libro: ne è solo il motivo ispiratore. Primo attore, infatti, è il pianeta
globalizzato: una sorta di Torre di Babele costruita con i precari materiali
dell’individualismo, del relativismo valoriale, della standardizzazione
tecnologica. Vincenzo Guarracino, altro valido poeta e critico letterario,
nella prefazione al volume di Isella sceglie il seguente incipit: “Un
protagonista (o un colpevole) c’è sempre. Anche qui, non diversamente da ogni altra
cosa o situazione dell’essere e della vita”.
Ebbene, il colpevole, in Mappe in controluce coincide con il
protagonista: è l’uomo, il colpevole. L’uomo che adora false divinità, l’uomo
che si inchina, per poi programmarne la distruzione, al “Dio-pianeta saturo,
saturo per esaurimento./”. Isella propone immagini apocalittiche, drammatiche
visioni nelle quali i “dispersi”, i sopravvissuti, cercano vie d’uscita
comunque occluse: “occhio per occhio spettro per spettro/ o re di bastoni per
re di denaro/ lo sguardo scoronato inzuppa il vetro/ su lui fa schermo un altro
sguardo amaro// (…)/ col chiodo inverso ogni chiodo è compatibile/ rete di
cloni in un solo reliquiario//”. La sua scrittura - permeata da un’acuta
tensione etica - sussulta nelle frequenti sincopi ironico-satiriche e si
protende verso una ricerca metafisica ansiosa e malinconica: “Forse continua a
vegliare su di noi, i melanconici./ Forse la sua ombra cammina con ostinazione
intorno ai mortali,/”. “In controluce” Isella studia “la mappa” che illustra il
sentiero della salvezza: tuttavia, la prima è oscura e il secondo
irrintracciabile. L’esito non è felice: ciò che resta è una paradossale,
mortifera, confusione. I miti antichi, e quelli biblici in particolare - da cui
Isella attinge copiosamente – sono, d’altronde, codici di lettura fecondi, e
l’autore vi si rivolge, nella speranza che qualcuno ancora sappia ascoltarli e,
soprattutto, interpretarli: “vela d’orbace issata sul pontile/ vibra col sangue
di Caino molesto/ dal dì che ignara un’ampolla si ruppe/ e l’acre fluido si
sparse su Abele//”. L’informe moltitudine contemporanea, però, è stordita dagli
effimeri stimoli consumistici della “società liquida”; non sente e non vede.
Non ha quiete, né più verbo: “continua tu nel quadro a strisce e spettri a
rigirare/ la larva appesa al chiodo di una diva senza età// o per spazi
d’insonnia le veline a sparpagliare/ ronzanti sul miele ambiguo della tua
identità// prova a ricuperarle nel miracolo di un volo/ plana sul telecomando,
chiedi che tempo fa//”. I poeti e gli artisti, invece, scrutano negli abissi
inconsci dell’umanità, per ritrovarvi l’archetipo che allude e turba, l’oracolo
che indica l’impervio cammino, il sogno che illumina la realtà quotidiana. La
strada, insomma, di un’autentica libertà: “sole nero che il poeta ricalca/ sul
cielo impassibile del canto/ povero dire o dir quasi niente/ meglio allora in
soli tizzi umani/ sillabare basso il cuore infranto//”. Il miraggio, l’oasi
refrigerante, si incarna - per Isella - in una semplice, curiosa, domanda, per
ora priva di risposta: “ma che farà ma che farà mai Orfeo?//”.
Quando l'arte diventa un mezzo per raccontarsi e per mostrarsi autentici, anche nel farsi cogliere da un lieve rossore, dato da un piccolo moto dell'animo o dal palpitare del cuore per un amore ricambiato. Quando con l'arte si cerca di attirare l'attenzione verso tutto ciò che sembra anonimo e che ci sfugge. Quando l'arte è denuncia delle condizioni della donna, e non solo. Quando l'arte è poesia e colore.
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