La sensibilità e il senso di protezione emergono imperiose
in Guscio di noce, di Vanni Schiavoni.È una raccolta di versi che esplode di
energia. Racchiude l’amore verso il padre e la sua assenza/essenza.
Un’introspezione di se stesso e della sua vita che appare straordinariamente
raccontata e musicata in versi.
Ricercato il lessico, uno stile autentico come autentici
sono i sentimenti provati dall’autore e vissuti intensamente nei versi: «(...)
Non mi riusciva da lontano / di leggere in te un’esistenza / scivolata nel
cantiere in disuso / dalle impressioni di un nulla perturbate / o nell’assenza
significativa di nubi / per mordere le nuove / e le vecchie stagioni». (p. 16).
Si legge ancora: «Per trovarmi sapevamo che la scusa / era solo uno schermo
dietro i graffi / e gli intagli lasciati a suggerire: la paura aveva impegni
più urgenti. (...)». (p. 17). Annaspa il passato e si impone un presente di
paura, malinconia, nostalgia per un padre che non vive costante la presenza del
figlio. C’è sofferenza, solitudine nei versi di Vanni Schiavoni che cerca di
comprimere in tono elegiaco i versi e adotta protezione, difesa - come in un guscio
di noce - verso un mondo circostante che lo spaventa, lo intimorisce e lo fa
sentire “inappartenente”: «Uno scrittoio di fogli in attesa / di verità già
nella mente / ma frammentate / rischiamo inoltre / lo scambio dei posti /
rimescolare nella fantasia / la tua inapparenza e la mia inappartenenza /
(...)». (p. 21).
Ricche di metafore ed enjambement le poesie di Schiavoni
come di respiro esistenziale, filosofico: « (...) i morsi canini dei giorni
estorti / cadono all’indietro in un mondo probabile / e lunga è l’attesa di
sentirne il fondo / il violento barrito della calura / l’interruzione della
cenere / deposta nel cucchiaio / che ci schianta». (p. 23) Shakespiriani i versi e non a caso è
riportato al principio del libro un passo dell’Amleto di Shakespeare, dalle
tragedie teatrali del grande letterato inglese alle composizioni poetiche in
tragedie, quelle della vita che in Guscio di noce sono rappresentate
magistralmente. Così si legge: «Lì dove sempre c’è una salita / o una discesa /
non questa lontana pianura bassa di terrazze / quelle diverse altane deserte
dove ogni affaccio / è un quarto di suicidio nonostante (...). Ma la forma dei
pianeti è fiamma / orfana dei fornelli, è sabbia / che corrode gli ingranaggi».
( p. 41). E ancora: «La tomba un pensiero appena percepito / che
andremo a inventare su altre violenze / o dove meglio funzioni la rimozione
delle catene (...). Pensare alla morte fa meno schifo / se ha l’odore di vigna
bagnata / se minaccia di muri a secco la contrada vecchia / se gonfiando
potessi allargare. La notte / distilla nei succhi e filtra gli abbagli / là
dove il lenzuolo coperto di liquidi / sfioriva e il dorso screpolava / un
tentativo radicale di imperfezione / scandiva la terra rugginosa / la
disciplina che ci compone». (p. 44).
Leggendo i versi di Vanni si ritrova il genio della
sregolatezza di Arthur Rimbaud. La poesia di Rimbaud cancella i tradizionali legami logici, le
categorie di spazio e tempo, causa ed effetto che per secoli avevano regolato
la poesia. La parola non è soltanto un mezzo di comunicazione - afferma Rimbaud
- ma ha il compito di evocare un mondo tutto fantastico, nel senso di nuovo,
diverso che va al di là del reale della superficie vitale. Così i componimenti
di Schiavoni appaiono nuovi, diversi, esplosivi di luci-ombre e di fantasiose
verità che riguardano il poeta.
Rimbaud afferma in una lettera del 1871 a Paul Demeny che il
poeta è un veggente. «Il poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa,
ragionata sregolatezza di tutti i sensi. Tutte le forme d’amore, di sofferenza,
di follia; cerca se stesso, esaurisce in se stesso tutti i veleni per serbarne
la quintessenza. (...) Egli ha un
incarico dall’Umanità, dagli animali anche: dovrà far sentire, palpare, ascoltare
le sue scoperte. Se quel che ci riporta di laggiù ha una forma, dà una forma:
se è informe dà l’informe (...)». Ė questo Vanni Schiavoni, un poeta veggente
che vede: «quello sguardo nell’agrumeto che attendeva / la luce nuova tra i
filari accanto / come fossero i due mari in sovraimpressione / che
maldestramente apparivano intatti e malati di un mestiere senza la passione /
le grette negazioni filiformi nell’ombra / come obelischi eretti in tempi
magri». (p. 53). «Non è da questa riva
ordinata / questa incognita tumefatta dal Mediterraneo / che pieghi e riponi
con le vene / delle onde fatte combaciare (...)
sovraffollato di abbandoni e specchi deformanti / il ricordo di voi
sospesi sull’acqua a divincolare / illuminati nella stessa pesca».
Ricchezza di senso e significato abbonda nei versi
illuminanti e nostalgici, densi di amarezza che rispecchia l’animo dell’autore
in questo momento della sua vita: «Dalla ferita della bocca a fiotti /
irrompono le frasi e allattano / la curiosità nelle imposte / le orecchie a
buccia della parete (...). percorro la separazione delle tue certezze, di qua /
un quasi lutto arreca l’eresia». (p. 58).
L’eresia dei sentimenti negati e l’incapacità di
comunicarli come la drammaticità di un lutto, un abbandono improvviso, che può
diventare imperdonabile: «Il tuo pianto estraneo alla ruggine non è più /
(...) è come il buio arriva presto / e
già assale le apparenze, dal pulviscolo / emerge un cenno fossile che era /
dimestichezza una volta / e come nient’altro ci crocifigge». (p. 59)
Pertanto concludo - leggere le poesie di Vanni Schiavoni -
è davvero “sorprendente”, “abbagliante”, “eloquente”.
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