Ass. Mad Management, Lupo Editore, Ass. Nubes
con il patrocinio del Comune di Copertino
presentano il nuovo Cd "La peronospera" di u Papadia in Piazza
del popolo di Copertino, Domenica 9 ottobre 2011 ore 21. Per tutti ma non per
pochi dunque … evento gratuito!
Recensione di 'u Papadia LIVE -
Di Stefano Mannucci (Il Tempo)
Si è caricato sulle spalle un
fardello mica da ridere. Non solo i tamburelli e ogni altra sorta di percussione,
ma soprattutto i coperchi. Perchè Umberto sa che il diavolo devi prima fartelo
amico, se vuoi combatterlo e poi guarire da certe malattie. E la malattia che
’u Papadia sente dentro di sè è forse inguaribile, ma di certo antica come la
sua terra, quel Salento che brucia di passione e di dolore, una terra
calpestata da troppe scarpe straniere, ostili, affamatrici. È una sorta di
indolenza, quella, che colpisce un popolo troppo spesso umiliato, ma
indomabile: un’apatia, un affaticamento dello spirito e del corpo, un blues
mediterraneo che ti fiacca e ti spinge a reagire, a trovare una cura per una
perenne inquietudine, la speranza di una salvezza personale e collettiva, il
ritorno in un luogo da poter chiamare casa. Papadia si schermisce. Dice: «Sono
l’unico possibile interprete di me stesso», ma la sua è una giocosa menzogna.
Il suo giocare al ribasso è solo un modo di denunciare lo straniamento dalle
proprie origini, ma non una reale solitudine. Umberto canta, urla, balla e fa ballare
perchè tutti, salentini e non, affrontino quella malattia. Che per lui, come
suggerisce il titolo del suo cd (uno dei più riusciti nell’intero panorama
musicale italiano degli ultimi anni) è "La peronospera". Una
patologia che non mina solo la salute delle piante (con conseguenze drammatiche
per l’agricoltura e per il fabbisogno alimentare delle popolazioni
interessate), ma anche, come si diceva, le persone. La gente. Quelli come
u’Papadia, certamente, nato in Germania da genitori immigrati, e che ricorda
un’infanzia in cui "gli italiani" erano trattati peggio di certi viaggiatori
della speranza che oggi arrivano sulle nostre coste dall’Africa. In chiave più
universale, le sue canzoni rappresentano tutti coloro che si sentano esuli,
privi di una radice salda su un humus fertile. Papadia è spiazzato, confuso,
incupito, ma privo di ogni autocompiacimento negativo: ed ecco che il suo
formidabile concerto si trasforma in un rito salvifico, in una redenzione, in
una catarsi permeata di rabbia ma illuminata dall’ironia, e immersa nell’eros
che solo le donne salentine possono offrire, le "tarantolate",
discendenti di altre donne che mentre mietevano il grano venivano morse da un
animale mitico, leggendario, inafferrabile, quasi certamente inesistente, la
taranta appunto, che le faceva muovere in modo isterico, posseduto, demoniaco,
finchè la musica, il battito, lo "spricolamento" non trovava la
giusta vibrazione, il ritmo, l’invocazione pagana per liberarle, svegliarle,
restituirle a una plausibile condizione sociale. Muovendosi lontano da certe
tentazioni freddamente etnomusicologiche, lo show di Papadia gioca
sull’innovazione, sull’invenzione, su una neo-tribalità che non può non
conquistare anche il più scettico degli osservatori. Una fantasmagoria "povera",
fatta di strumenti occasionali ma straordinariamente efficaci: come quei
coperchi dove cerchi di percuotere il diavolo, finché non lo spingi a liberarti
per sempre da vecchie e nuove ossessioni.
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