Terzo della trilogia
“Racconti degli ultimi giorni” di cui il primo, il pluri tradotto Capitano
della steppa, ha vinto il Russian Booker Prize, Requiem per un soldato è un
romanzo tratto dalla reale esperienza dell’autore presso i campi sovietici in
Kazakistan. Oleg Pavlov, allievo di Aleksandr Solženicyn, è il cantore
indiscusso della Russia a cavallo tra Arcipelago gulag (del suo maestro) e
Lemonov (di Carrère), una sottile terra di mezzo tra il periodo di massima
potenza dell’URSS e il periodo “degli oligarchi”. Un lasso di tempo unico, in
cui tanti avevano già capito che il comunismo non sarebbe sopravvissuto e
vivevano quell’attesa come in una sorta di limbo insensato più che nella
speranza di libertà future. I protagonisti di questa letteratura “interstiziale”
sono i massimi latori dell’assurdità dell’epoca: i soldati semplici (o i
graduati inferiori) preposti alla salvaguardia di strutture ormai inutili come
infermerie, prigioni militari, poligoni di tiro o obitori per i soldati…
La vicenda si svolge nella
cittadina di Karaganda (attuale Kazakistan). Il capo di un’infermeria fissato
con la caccia ai topi decide di prendersi cura della salma di un soldato ucciso
in una futile sparatoria tra militari sovietici. La trama segue il viaggio del
defunto verso Mosca, attraverso protocolli sfilacciati, fori in testa da
camuffare, divise da parata lerce, compiti svolti in cambio di un pacchetto di
the e molto molto freddo. Oltre al capo medico, ignavo padrone di un ambiente
insulso, quale un ambulatorio nella seconda periferia dell’ URSS in declino,
l’ingrato compito di scortare il soldato Gennadij Muchin o almeno i suoi resti
mortali, spetta ad altri due emblematici personaggi. Primo tra tutti forse il
protagonista (almeno tra i vivi) di questo libro ovvero Alësa Cholmogorov,
soldato congedato da un poligono di tiro nella steppa. La solitudine nel
poligono di tiro kazako è descritta con prosa di rara bellezza, ma al di là
degli accenni lirici alla condizione umana, Pavlov riesce a rendere
l’insensatezza della vita militare degli “ultimi giorni” con dei tratti
grotteschi, divertenti. Così, per ironia della sorte, il nostro soldato
semplice avrà solo una persona con cui parlare durante gli sporadici controlli
al poligono di tiro: il paterno generale Abdulla Ibrahimovic Abdullaev
assordato a vita da una granata! L’altro
accompagnatore è il cinico e infervorato autista di ambulanza Pal Palyč, che
sembra essere a suo agio in quel mondo conosciuto a furia di portare avanti e
indietro barelle. A scompaginare la determinazione del terzetto sarà la figura
simbolo dell'inanità del tutto: il padre del soldato morto. Un “patetico
individuo” che annega nell’edonismo il dolore per la perdita del figlio, tanto
da preferire un festino a base di vodka al posto sul treno che porterà la bara
nella capitale per il funerale militare… In un treno merci che funge da hotel,
il padre del soldato si accompagna con un’umanità ferroviaria di vario genere.
Pal Palyč e Alësa Cholmogorov cedono al
richiamo del brindisi in onore del defunto, ma davanti a loro si schiude una
sorta di non compleanno con tanto di “cappellai” matti e situazioni surreali.
In fondo se morire è così semplice e la vita non è molto più sensata che la
morte, non resta che brindare e far baldoria. O impazzire.
Oleg Pavlov (Mosca,
1970) è uno degli autori più dotati e stimati del “rinascimento letterario”
russo contemporaneo. Molto giovane ha prestato servizio a Karaganda come
guardia carceraria, testimoniando ogni sorta di degradazione umana; alla fine
una grave commozione cerebrale l’ha portato a essere ricoverato presso
l’ospedale psichiatrico locale. Ha lasciato l’esercito all’età di vent’anni a
causa di una diagnosi di “instabilità mentale” e scritto questo suo primo
romanzo breve semiautobiografico a ventiquattro. Leggendo Arcipelago Gulag di
Solženicyn, afferma di avervi scorto esattamente il lager in cui aveva
lavorato. Negli ultimi anni di vita di Solženicyn, è diventato suo allievo e
aspira a proseguirne la grande opera. Nel suo insieme, la sua trilogia
narrativa fornisce un resoconto ironico ma agghiacciante di cosa volesse dire
essere un soldato nelle remote regioni asiatiche dell’ex impero sovietico nel
momento insieme tragico e assurdo della sua dissoluzione.
Premi letterari:
Novy Mir Literary Magazine Prize (1995)
October Literary Magazine Prize (1997 e 2002)
Russian Booker Prize (2002)
Premio Solženicyn (2012)
Finalista Prix du
Meilleur Livre Étranger (2012)
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