lunedì 21 dicembre 2009

"Buone da sposare" di Adriana Maria Leaci (Il Filo editore)

Non sono mai stata una femminista come quelle degli anni Sessanta, che partecipavano alle manifestazioni e che poi bru¬ciavano i reggiseni in piazza. L’estremismo di ogni idea mi ha sempre causato disgusto. Mi ritengo piuttosto una giusti¬ziera precoce, dato che una volta capito, sin da piccola, che in questo mondo le donne spesso sono martiri della società in cui vivono, mi sono subito ribellata. Partendo dalla scuola elementare, dove ho avuto un compagno, rivale spietato, che pretendeva di avere voti superiori ai miei, e per ottenere ciò non misurava termini; per poi scontrarmi, tutt’ora, con quei soliti discorsi che giustificano il mio modo di pensare solo perché sono una donna. Ho cercato continuamente di difendere, a spada tratta, non una probabile superiorità – ci sarebbe da aprire un trattato su questo – ma l’uguaglianza di diritti, nonché i doveri tra uomini e donne che si amano veramente, essenziali perché la discri¬minazione non sfori la dignità umana.
Quand’ero solo un’adolescente, quando facevo i primi passi da adulta, cercando anche i consensi di quelli più grandi di me, era abituale sentire la frase “sei tanto brava che ti puoi già sposare”. Già. Osservando e misurando le faccende dome¬stiche si stabiliva − e si stabilisce ancora oggi − quanto una ragazza fosse adatta al matrimonio. Come se quel traguardo fosse l’obiettivo unico nella vita di una donna; come se, all’in fuori di quello, nulla rimanesse, nulla valesse veramente la pena per restare vivi in questo mondo. Certo è che l’unione dell’uomo alla donna è basilare per la sopravivenza della specie, ma vorrei tanto che la scienza non ci ponesse sempre al confronto, limitandosi soltanto a chiarire i nostri dubbi e dandoci risposte ai nostri problemi. Sempre la stessa scienza usa la parola uomo, dal latino homo, come identità anche per noi donne (in latino sarebbe mulier, poco sonoro, poco significante, poco conosciuto persino nel¬le poesie latine), nonostante la sua partecipazione alla pro¬creazione non l’impegni per più di quindici minuti, per ogni parto, anche gemellare. Affrontiamo il dolore fisico, ognuna con la sua soglia di sopportazione, però ci rifacciamo con le altre gioie della vita. Fu inflitto dal Creatore su Eva e per tut¬te le generazioni di donne, nei secoli dei secoli, si partorisce con dolore − eccezion fatta per quelle che hanno conosciuto la meravigliosa invenzione dell’anestesia epidurale − e ogni mese ci ricordiamo del peccato originale di quell’ancestrale e cara parente. Per molto tempo siamo state relegate alla figura tenera di madri e nonne, rappresentate in dipinti dai maggiori artisti, senza altri scopi se non quelli di badare alla prole e al nido fa¬migliare. La storia dell’umanità purtroppo racconta più degli eroi, morti per difendere un ideale politico o di pensiero. Sono stati loro a tramandare i valori più decantati dai libri. Sull’eroi¬ne, esclusa Giovanna D’Arco e qualcun’altra del genere, por¬tate al sacrificio di se stesse, si fanno poche menzioni. Nel secolo XXI invece l’evoluzione della donna spaventa, soffoca, disorienta. È successo tutto troppo in fretta perché fosse compreso senza traumi. I ruoli si sono invertiti. Gli uo¬mini sono divenuti le vere vittime. Questa non vuol essere, assolutamente, una manifestazione contro gli uomini, anzi. Cerco di riflettere. La vita non avrebbe senso se non fossimo in coppia sulla faccia della terra. Siamo esseri bisognosi uno dell’altra e le sofferenze sono superabili proprio perché vissute insieme. Mi piace pensare e vivere con un compagno con cui condivido e divido ogni evento della mia esistenza. Durante la stesura di questo libro sono passata spesso dal racconto, puro e semplice, a un’analisi personale del signifi¬cato della persona-donna, fino ad arrivare al titolo principale. Ora mi trovo a voler quasi giustificarlo, forse perché io stessa comprenda la scelta di questo percorso di scrittura.
Come è solito in me, cerco una descrizione dei sentimenti più profondi, attraverso le scelte di vita che fanno le persone, puntando sui vari interessi e sui valori inculcati dalla società. Determinati comportamenti provengono dall’ambiente in cui si vive, quindi è sufficiente nascere in un continente piutto¬sto che in un altro, per trovare la differenza di sviluppo delle donne. Anche il clima incide enormemente sull’umore uma¬no. È la mentalità però che regge il destino di ognuno ed è quest’aspetto che vi farò conoscere. Descrivo donne del passato, educate nel rispetto della figura maschile, a loro servizio, talvolta nell’idolatria, altre volte nella ribellione, ma sappiamo che tante nel mondo si trovano anco¬ra a vivere le stesse cose, solo in Occidente. Questo vuol’essere un omaggio alle donne che ho cono¬sciuto e dalle quali ho tratto l’ispirazione, non solo per scrive¬re. Donne che mi hanno insegnato e trasmesso il vero senso dell’esistenza e che sono diventate una parte di me. Donne inventate, sognate, invidiate e amate. Donne. Siamo gli esseri che generano l’umanità, e dobbia¬mo ancora conquistare il mondo.

Adriana Maria Leaci è nata il 29 agosto del 1959 in Brasile, da genitori italiani. A venticinque anni ha lasciato il Paese ed è venuta a vivere in Italia, dove si è sposata e vive tuttora. Lavora come impiegata nella Pubblica Amministrazione. Nel 2006 ha pubblicato Con gli occhi di mio padre, Luca Pensa Editore

dalla premessa - su concessione dell'autrice

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