martedì 30 settembre 2008

Le donne della settimana n.3













Silvia Ziche
Cipriana Dall'Orto
Geppi Cucciari
Maria Adele De Francisci
Alessandra Appiano
Sarah Palin
Miriam Leone
Gwyneth Paltrow
Kate Hudson
Lavinia Biagiotti Cigna
Beatrice Trussardi
Hilary Swank
Concita De Gregorio
Irene Pivetti
Stella Pende
Jessica Alba
Isabella Ferrari
Victoria Beckam
Lilly Allen
Michelle Obama
Kylie Minogue
Mischa Barton
Barbara D'Urso
Eva Longoria
Martina Stella
Elisabetta Canalis
Sumaya Abdel Qader
Maria Daniela Raineri
Benedetta Cibrario
Valeria Montaldi
Susan Shapiro Barash
Emily Dubberley
Sonia Muller
Anna Molinari
Kate Moss
Laura Biagiotti
Antonella Trentin

fonte iconografica www.centroartivisivepescheria.it
opera di Cristiano Pintaldi

sabato 27 settembre 2008

Malata di Amore di Scrittrice75

Ho scoperto di essere malata da qualche anno. Quando dico malata, non intendo malata nel vero senso della parola, ma malata di testa.
Non voglio neppure dire di essere pazza, assolutamente. Ho solo un piccolo, se così si può definire, difetto: il mio sport preferito è fare innamorare gli uomini. Badate bene, ho detto fare innamorare, non farci sesso.
So già cosa vi starete domandando: quale differenza c’è?
C’è una enorme differenza. Chi punta solo al sesso, se ne frega dei sentimenti. Chi, invece, è affetto dalla mia malattia, non riesce a ritenersi soddisfatto se non ottiene l’amore del povero malcapitato di turno.
Un’altra delle caratteristiche che contraddistingue la mia patologia è che, non mi sento in dovere di scegliere la mia prossima vittima a seconda dell’età. Quindi 20, 30, 40, 50 anni non fa alcuna differenza. Oltre i cinquant’anni no, in quel caso si andrebbe oltre il limite della decenza.
Non sono una modella od una attrice. Sono una bella ragazza, come ce ne sono tante, ma dalla mia ho una cosa che molte donne non hanno, oppure non sanno sfruttare bene.
Io sono capace di rendere un uomo felice facendolo sentire speciale. Questo è il mio segreto.

ooooooooooooooooooo

Allora cominciamo con le presentazioni: mi chiamo Anna ed ho 30 anni. Lavoro, sono impiegata in una grande azienda chimica. Sono fidanzata da anni con Fausto. Lui è un agente immobiliare. Fausto mi ama ed io lo amo. Quando iniziai la mia storia con lui, ero innamorata nel modo giusto.
Vale a dire che ho cominciato ad amarlo follemente e l’ho desiderato con tutta me stessa. Con lui non ho utilizzato giochetti per conquistarlo. Sono stata me stessa.
C’è da dire che forse allora non ero ancora capace di utilizzare questa mia arte della seduzione.
Comunque la nostra relazione va avanti da cinque anni. Cinque anni di felicità.
Quello che ha contribuito a fare precipitare le cose è stato quando un mese fa, Fausto mi ha chiesto di diventare sua moglie.
Sul momento sono rimasta senza parole. Devo ammettere che non mi sono sentita felice. E’ normale questo? Di solito quando si riceve una proposta di matrimonio dall’uomo che si ama non si dovrebbero fare i salti di gioia?
Comunque non mi sono posta troppe domande. Gli ho risposto di sì.
“Fausto, ti amo tanto.” Mentre pronunciavo queste parole, lui intanto mi infilava al dito un bellissimo anello di fidanzamento. Un solitario che riluceva di mille bagliori.
Da quel momento in poi, posso dire di non essere più stata me stessa.
D’accordo con Fausto abbiamo fissato la data del matrimonio per il 16 giugno dell’anno successivo, abbiamo cominciato a muoverci per scegliere il ristorante, la chiesa, gli addobbi e tutto quello che necessitava per organizzare un ottimo matrimonio, ma in quei momenti la mia testa era altrove. Tra parentesi non so neppure io dove stava di casa, perciò non domandatemelo.
L’unica cosa certa era che non riuscivo proprio a concentrarmi sui grandi problemi che inevitabilmente un matrimonio comporta. Per questo motivo spesso ero poco entusiasta.
Chi davvero non riusciva a restare nella propria pelle per il grande evento era mia suocera Camilla. Da quando le avevamo annunciato la lieta notizia, aveva cominciato a sfogliare e leggere tutte le riviste del settore per cercare il meglio del meglio.
“Sarà un evento indimenticabile… Fidatevi ragazzi” continuava a ripetere.
Io mi fidavo talmente tanto, che avevo fatto scegliere quasi tutto a lei. Flavio, comunque, doveva avere notato questa mia estraniazione a tutta la situazione, infatti un giorno mi domandò: “Non mi sembri molto interessata a curare i dettagli del nostro matrimonio. O sbaglio?”
“No assolutamente, ti sbagli. E’ solo che tua madre è bravissima e mi fido di lei”
Fortunatamente il discorso non fu più ripreso.
Da allora però, cominciai a sentire crescere dentro di me una specie di inquietudine. E’ difficile spiegare come mi sentissi realmente. Sfatiamo subito un mito: non avevo voglia di tradire il mio fidanzato. Con lui stavo bene, e non sentivo la necessità di fare altre esperienze.
Però ci doveva essere qualcosa che mancava alla mia vita. Non era il sesso e non era l’amore, cos’era allora?
Continuavo a rimuginare su questa cosa e non riuscivo a trovare una risposta. Ad un certo punto rinunciai a capire, se mi sentivo così inquieta forse era solo dovuto all'agitazione per il mio prossimo matrimonio. Del resto un matrimonio ti cambia la vita.
Quando cominciai a rilassarmi ed a non pensare più ossessivamente alle sensazioni a volte di soffocamento, a volte di serenità che a tratti mi coglievano, cominciai a comportarmi in modo strano con gli altri.
Cominciò tutto per caso, se così si può dire.
Frequentavo una palestra, tre volte a settimana e lì avevo conosciuto un mio coetaneo. Eravamo diventati amici, ci aspettavamo sempre quando dovevamo iniziare gli esercizi e lo stesso, dopo la doccia a fine allenamento, uscivamo insieme e spesso ci fermavamo in un bar per bere in aperitivo in allegria.
Il suo nome era Fabrizio. Una donna capisce sempre quando un uomo è interessato a lei, ebbene Fabrizio era interessato a me. Quando quel pomeriggio gli confessai che il mio fidanzato mi aveva chiesto di sposarlo, qualcosa dentro di lui mutò.
Dalle volte successive, infatti, cominciò ad evitarmi. Notai immediatamente il cambiamento in lui.
L’unico problema era che non volevo fare a meno della sua compagnia, non volevo fare a meno di lui.
Per questo motivo, cominciai a comportami da stupidina. Dovevo assolutamente convincerlo a tornare ad essere mio “amico”, volevo di nuovo le sue piccole attenzioni che tanto mi rallegravano.
Quel pomeriggio mi avvicinai a lui. Stava facendo un esercizio di pesi sulla panca.
“Fabri” dissi piazzandomi davanti a lui nei miei shorts ultra attillati.
Lui interruppe l’esercizio e si rialzò per guardarmi. “Ciao Anna” mi rispose semplicemente.
“Fabri, ho bisogno di un favore enorme da te” iniziai.
“Che tipo di favore?” mi domandò asciugandosi il sudore dalla fronte con l'asciugamano.
“Sei il migliore informatico sulla piazza… Ti va di spiegarmi, quando usciamo dalla palestra, due cose su Windows Vista? L’ho appena istallato sul mio portatile. Ce l’ho dietro. Se hai voglia dopo andiamo nel nostro bar preferito. Ti offro l’aperitivo in cambio di un aiutino” gli dissi con occhi ammiccanti.
“Non so, veramente avrei un impegno..” disse
“No ti prego dai…” mi accovacciai al suo fianco e gli poggiai le braccia sulle gambe muscolose. Poi avvicinai le mie labbra al suo orecchio e gli sussurrai: “Forza.. non siamo amici? Perché ultimamente mi eviti? Ti sto antipatica? Ti ho offeso” gli domandai
“No, no assolutamente. Va bene dai. Ci vediamo dopo allora” cedette finalmente.
“Grazie sei un tesoro” gli dissi sorridendo felice stringendomi al suo braccio.
Lo vidi chiaramente deglutire ed arrossire leggermente. Quando mi alzai per tornare al mio tapis roulant sentii su di me il suo sguardo che mi seguiva ed in quel momento mi resi conto che ero felice di averlo convinto a vederci. Mi mancavano troppo le sue premure verso di me, i suoi complimenti....
Ma mi mancavano solo queste cose? Pensai in un attimo di lucidità.

Più tardi, ci recammo insieme nel nostro locale preferito. Mi sedetti in un tavolino d'angolo ed invitai Fabrizio.
“Sono felice che tu sia venuto con me... avevo notato che mi evitavi. Per un attimo ho avuto il dubbio che ti avessi offeso” gli dissi
“No, il problema, se così si può dire è un altro” mi rispose
Lo osservai in viso. Fabri era il tipico ragazzo carino, ma timido. Non che non cercasse di abbordare le ragazze, ma quando si trattava di affondare il colpo di solito ci andava giù cauto.
A mio avviso avrebbe potuto essere più sicuro di se stesso, era un ragazzo con lineamenti regolari, capelli corti castani e due bellissimi occhi verdi. In più si era forgiato un fisico niente male con palestra e pesi.
“Cosa significa che il problema è un altro?” gli domandai
“Lasciamo perdere Anna... Prendi il Pc così ti spiego come funziona Windows Vista”
Cominciò a farmi vedere tutte le nuove caratteristiche del sistema operativo ed io, mentre parlava, gli fissavo le labbra sorridendo.
“Sei un fenomeno davvero” lo interruppi
Lui si voltò a guardarmi e ci trovammo a pochi centimetri di distanza. Poi mi chiese: “Ma mi ascolti si o no?”
“Certo, ho capito tutto cosa credi.... Sai cosa penso Fabri? Penso che quando sei intento a spiegare procedure informatiche sei più affascinante del solito” gliela buttai. Io calcolavo e ponderavo tutto prima di colpire. Sarei stata una ottima giocatrice di poker.
Lo vidi nuovamente deglutire ed in quel momento compresi che io gli piacevo moltissimo, non un pò.
“Mi fai male se mi dici che ti affascino sai? E' meglio che tu non me lo dica. Anzi no, è meglio che tu mi dica che non ti piaccio per niente” sbottò
Ed in quel momento compresi che io a Fabrizio non piacevo soltanto: lui era preso di me.
Questo pensiero mi fece gonfiare d'orgoglio.... Al posto di sentirmi colpevole per averlo, tra virgoletto, illuso ed ammettere a me stessa che avrei fatto bene ad evitarlo per non innescare ulteriori problemi, io mi sentivo una Dea.
Questo fu l’inizio della mia “malattia”. Dalla quale non ho mai avuto alcuna intenzione di guarire.


Continua..............




Mi chiamo Angela ed ho 33 anni. Lavoro nel settore chimico e sono una addetta al servizio qualità.
Sono sposata e mamma di due bambini.
Adoro scrivere. Scrivo da anni, ma sempre racconti brevi o novelle. Ho deciso di cimentarmi in un romanzo l'anno scorso e da lì è nato il mio Pensa a ciò che desideri davvero.
Avevo iniziato a pubblicare quache capitolo del racconto sul mio blog, ma poi ho fermato tutto. Grazie per i complimenti e spero torniate sul mio blog per leggere il seguito di Malata d'Amore.

fonte iconografica di Telma Perdigao

mercoledì 24 settembre 2008

Un mio augurio a Domenico Protino





La cultura della Bellezza, passa anche attraverso la buona musica. Caro Domenico, che tu sia artefice di questo meraviglioso processo. In bocca al lupo.

Paola Scialpi







Domenico Protino
L’album in vendita in tutti i negozi dal 26 settembre 2008
In airplay radiofonico “La guerra dei trent’anni”
Showcase alla Feltrinelli di Bari il 26 settembre

Dopo avere vinto il Premio Lunezia nella sezione Nuove Proposte con il brano “W la Vita” ed aver rappresentato l’Italia al Festival di Viña del Mar in Cile e vinto con il brano “La Guerra dei trent’anni”, Domenico Protino presenta il suo omonimo album d’esordio.
Il prossimo venerdì 26 settembre, presso la Feltrinelli di Bari (h. 18.30) si svolgerà lo showcase di presentazione, nella sua terra, la Puglia.
Cantautore ed interprete nato a Torre Santa Susanna, in provincia di Brindisi, si appassiona giovanissimo alla musica per poi scoprire il suo amore per la chitarra e successivamente alla musica cantautorale italiana e al pop internazionale.

Nel 2000 decide che la musica sarà la sua vita e cogliendo ogni possibilità di esibizioni live - siano esse in cover band sia da solista nelle vesti di cantautore - partecipa a concorsi canori nazionali che gli permettono di prendere confidenza con palcoscenici sempre più importanti, fino ad arrivare alla vittoria del prestigioso Premio Lunezia Giovani Autori 2007 che premia il valor musical-letterario delle canzoni italiane, con il brano “W la vita”. “W la vita” un brano che si propone di trasmettere l’energia e l’ottimismo necessari ad affrontare questa “splendida gita” con cuore e determinazione, senza condizionamenti o paura di mostrare quello che si è realmente.
Questo premio gli consente di esibirsi “fuori concorso” in altre importanti manifestazione come il Premio Mia Martini, il Solarolo Song Festival, il M.E.I., Sanremoff e il Premio Bindi. Nell’estate 2007, Domenico si aggiudica il Premio Salentino con il brano “La nuova aurora”.
Nel 2008 viene selezionato come unico rappresentante italiano al Festival Internazionale della Canzone di Viña del Mar in Cile (il più importante festival dell’America Latina e unico gemellato con il Festival di Sanremo); Domenico Protino vince con il brano “La guerra dei trent’anni” aggiudicandosi due “gaviotas de plata” ovvero i premi come migliore autore e migliore interprete. La prestigiosa manifestazione è molto spesso la porta di accesso al ricco mercato musicale dell’America Latina, ma anche occasione di promozione intercontinentale.
“La guerra dei trent’anni” fa riferimento, nel titolo, alla guerra del Peloponneso (Atene contro Sparta) e a Pericle abilissimo stratega ateniese, fautore della democrazia radicale - piena parità dei cittadini nella gestione della vita pubblica - ma anche uomo di cultura. Come lunghissima fu quella guerra, così anche quella “combattuta” da chi ha trent’anni e ha trascorso già abbastanza tempo per non accorgersi che è difficile accordare fiducia a chicchessia, che soltanto pochi “pazzi” mantengono la parola data, che nessuno ti aiuta senza un tornaconto personale, che non può che augurarsi appunto un ritorno all’Età di Pericle, un ritorno alla meritocrazia per far valere i propri diritti e i propri talenti. Per questo “vuole diventare pazzo” e “vuole diventare cieco” per non capire e non vedere parzialità e storture: la vera vittoria non consisterà necessariamente nella vittoria personale ma in quella di un sistema trasparente fondato sul merito. Vincerà Pericle!
Con questa esperienza Domenico Protino inizia il suo percorso professionale con gli attuali produttori Maurizio Dinelli e Beppe Carletti.
Il suo primo album “Domenico Protino”, consta di 10 brani. Registrato presso gli studi Panpot di Brindisi e mixato allo Studio S.Anna di Castel Franco Emilia (Modena) e al Creative Mastering di Forlì, suonato interamente, oltre che da Domenico, da musicisti pugliesi, è realizzato sia in lingua italiana che in lingua spagnola per il mercato latino-americano; scaricabile da iTunes e in vendita nei negozi dal 26/9 distribuito da Warner Music Italia Srl.

Contatti

Domenico Protino:

www.domenicoprotino.com

www.myspace.com/domenicoprotino

Progetto Musica

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martedì 23 settembre 2008

Monica Viola: Tana per la bambina con i capelli a ombrellone

Questa è la storia di una ragazzina affamata d’amore e d’accettazione in una famiglia romana troppo numerosa e caotica per saziarla. È la storia di una generazione ibrida e rimossa: quella di chi era troppo giovane per il ’77 e troppo vecchio per gli anni Ottanta. È la storia di una Bambina con i Capelli a Ombrellone cresciuta a cavallo dei due decenni, inciampando nelle spine più aguzze della vita: le molestie dei fratelli, la malattia e la morte della madre, l’indifferenza del padre. È la storia di un’Italia prima insanguinata e impaurita, poi d’improvviso futile e leggera.
“Tana” è uno di quei rari romanzi di formazione in cui la storia con la “s” minuscola – che come la protagonista si appiccica, seduce e non molla – riesce a intercettare la Storia con la “s” maiuscola, a farsene bandiera. In cui il privato è “politico” nel senso più ampio del termine. Il monologo interiore che l’autrice Monica Viola ci regala – con una prosa potente, aspra e originale – rivela le fragilità di un’adolescente vissuta sentendosi marginale in un contesto di angoscia collettiva: ripercorriamo nei suoi flash sgomenti gli anni delle stragi e degli omicidi “politici”, Bologna e Moro, Serpico e i gambizzati, le mille “paranoie collettive”. E, allo stesso tempo, sbandiamo con i suoi sbandamenti: gli errori, le bugie, il sesso inutile e pieno di odio, il pochissimo amore, le amicizie, le perdite dolorose. Con una colonna sonora che, da sola, batte il tempo del romanzo, dai Pink Floyd ai Gong di Daevid Allen e Steve Hillage, da Guccini a De Gregori, dagli Chic alla Sugarhill Gang, dai Genesis agli Earth Wind & Fire, da David Bowie ai Genesis, fino a Madonna e ai Duran Duran, icone pop di un decennio pop, per concludersi con il lirismo degli Smiths.
Non c’è nulla di buonista: la Bambina diventa donna e rifonda la sua vitalità, ma a caro prezzo. Il messaggio è scabro e concreto: si può sopravvivere. Nessun eroismo, se non quello della sopravvivenza.
Dice bene Lidia Ravera nella quarta di copertina: “La piccola educazione sentimentale di una bambina sincera e scostumata. Un’apologia del disagio giovanile come solo e insostituibile motore per una formazione decente. Epica frammentaria di pigrizie e crudeltà, alla ricerca di un po’ d’amore, anche poco, anche usato, anche effimero. Un bel personaggio, la Bambina con i Capelli a Ombrellone, tana per lei, fra Flaubert e Woody Allen”.
Dice bene l’autrice: “Questa storia vuole anche essere – con poche pretese – la cronaca di una generazione senza identità: troppo giovane per il ’77 e troppo vecchia per gli anni 80. Generazione ibrida che ha fatto da ponte tra due estremi, sotto l’ombra lurida degli anni di piombo e delle stragi di Stato. Una generazione rimossa di cui non parla mai nessuno, assente anche dall’immaginario cinematografico. E però eravamo tanti, scuole con le sezioni fino alla lettera 'T'. Dove siete, tutti?”.

quarta di copertina

“La piccola educazione sentimentale di una bambina sincera e scostumata. Un’apologia del disagio giovanile come solo e insostituibile motore per una formazione decente. Epica frammentaria di pigrizie e crudeltà, alla ricerca di un po’ d’amore, anche poco, anche usato, anche effimero. Un bel personaggio, la Bambina con i Capelli a Ombrellone, tana per lei, fra Flaubert e Woody Allen.” [Lidia Ravera]

Roma, anni Settanta. Epoca di passioni politiche che infiammano, di attentati ed esecuzioni a insanguinare le strade, di giorni intrisi di una tremenda, capillare angoscia collettiva. Fino al sopraggiungere degli anni Ottanta, futili e liberatori, carichi di voglia di leggerezza e di evasione, di musiche di tendenza, di mode irrinunciabili.

A cavallo dei due decenni, la storia interiore di un’infanzia e adolescenza, il racconto di una bambina che, passando attraverso esperienze dolorose e destabilizzanti - ma senza mai rinunciare a rincorrere la felicità -, infine diventa donna.

Cresciuta in una famiglia numerosa, caotica e vecchia maniera, con un padre autoritario, una madre dolcissima, sorelle, fratelli e una nonna rinchiusa nel suo passato di sogno, la Bambina con i Capelli a Ombrellone inciampa nella vita e nelle sue spine più aguzze, subisce lacerazioni traumatiche (le molestie sessuali di due dei fratelli più grandi, la grave malattia della madre), sbanda - ma si reinventa con nuova, sorprendente, trascinante vitalità.

Affronta la scuola con i suoi piccoli grandi insuccessi, le difficoltà degli amori e l’ambiguità del sesso, sa riconoscere la vera amicizia (anche se non sempre sa rispettarla), ma si adegua alle compagnie più diverse, sempre alla ricerca di un po’ di attenzione, di un po’ di affetto, spinta da quella voglia urgente dell’adolescenza di piacere e conquistare e con la necessità profonda e sommersa di un inconsapevole, istintivo costruirsi. Sostenuto però da una grande risorsa: la capacità di cercare negli altri il miracolo dell’accettazione nonostante tutte le proprie traballanti insicurezze, quel miracolo che, unico, potrà aiutarla a “ricucirsi”.

Un romanzo a forma di lungo monologo interiore, che alterna brani di narratività accattivante a momenti di autentico lirismo. Una prosa attenta, scrupolosa, dallo stile sintetico e pregnante e dal linguaggio intensamente evocativo: parole dense e vere per raccontare una storia che, come la protagonista, si appiccica, seduce, non molla.

Monica Viola è nata a Roma l’anno in cui nasceva il beat. Ci abita ancora, infelicemente impiegata. Questo è il suo esordio narrativo.

Tre ragioni per NON leggere questo romanzo:
1. ami la letteratura “minimum fax”
2. odi i memoir
3. in un romanzo cerchi una narrazione compiuta con una storia e un finale, magari inaspettato.
mv

fonte iconografica e comunicazione tratti da www.monicaviola.it

domenica 21 settembre 2008

Lidia Ravera vista da Elisabetta Liguori

Questa volta non vorrei raccontare una trama.
Davanti ad un romanzo come questo, vorrei poter parlare di passione. Di quella di ieri, di quella di oggi. Di passione e di equivoci. Parlare cioè di quello che di mio o di altri, forse di universale, mi è parso di riconoscere dentro il nuovo romanzo di Lidia Ravera, ” Le seduzione dell’inverno” edito da Nottetempo: una storia che racconta abilmente le attuali conseguenze dei fraintendimenti amorosi.
Un buon romanzo, a mio avviso, nasce sempre da un’idea forte, una specie di intuizione quasi fastidiosa. Tale idea si nutre dell’osservazione e attraverso quella, nel bene e nel male, genera atmosfere, personaggi, eventi. A volte anche in maniera casuale. Se l’idea iniziale è davvero forte, il romanzo che ne deriva andrà lontano e sarà sempre possibile, per ciascun lettore e in ogni tempo, riconoscere, tra le altre da quella germinate, l’idea principale. In questo romanzo si conciona di umane corrispondenze, intese come frutti diversi di un diverso fraintendimento. Un po’ tutte le relazioni umane, infatti, si fondano su un malinteso, sull’efficace elaborazione di un’ immagine che risente della soggettività di entrambe le parti coinvolte, e che per questo produce cambiamenti continui e variabili. Ecco in sintesi l’idea prodromica alla storia messa in scena da Lidia Ravera, il suo romanzo incubato.
Tutto comincia in una casa: stanze caotiche che sembrano fuggire dagli oggetti o dalle quali gli oggetti stessi sembrano voler fuggire. La casa di un uomo solo, descritta esattamente come le donne sono solite immaginarla. Sudiciume e stratificarsi di detriti su detriti, tra i quali nulla lascia intuire un cambiamento imminente. A questa casa viene fatto il dono di una donna. Non dirò qui come, perché il come riguarda la trama ed è terreno impervio adatto solo al lettore. Non voglio entrarci. Dirò invece di questa donna, perché lei è l’idea prodromica. Una cameriera: tale la donna si dichiara, come tale si veste, come tale agisce, pur restando fuori da ogni schema noto sin dalla sua prima apparizione. Già la sua presenza, prima ancora della sua vista, impone ai luoghi un prurito nuovo e diverso. La tavola imbandita, un pentola che brontola sul fuoco, profumi indefiniti che evocano l’infanzia, musica impegnativa, stanze ritornate alla luce. Tutto questo, un mattino qualunque, precipita il padrone di casa in un’ansia imprevista, lasciando presagire una presenza aliena e un’armonia nuova da metabolizzare. Lui è un editor ultraquarantenne, algido, capelli sale e pepe, grande cultura, ma sguardo incupito, disilluso, avvezzo alla solitudine. Un matrimonio sbagliato alle spalle, nessun figlio, solo alcune esperienze recenti con quelle che lui chiama “Opere Prime”, cioè giovani scrittrici debuttanti, acerbe, vogliose di successo e credito. Il rigore chirurgico con il quale la Ravera descrive i suoi personaggi è strumentale al corretto svilupparsi dell’idea di partenza. Il profilo del protagonista maschile è, infatti, netto, la sua immagine riflessa nello specchio ha contorni compiuti, costituiti da mille dettagli che raccontano sapientemente un’intera generazione. Quella generazione così ben cantata dalla Ravera anche in altri suoi romanzi, quella delle scoperte e delle rivolte, quella dell’intelletto appassionato, quella che aveva mandato Flaubert a memoria. Quello descritto non è più lo stesso uomo, ormai, ma un freezer, da tempo relegato all’inverno emotivo più rigido, sia nella cura di sé, che in quella delle relazioni con gli altri. Cosa potrà mai far cambiare idea ad un uomo così? Da cosa o da chi potrà mai essere veramente sorpreso e animato un uomo deluso, ormai stabilmente planato nel suo inverno sentimentale? Sarebbe scontato chiedere ausilio all’amore, immaginare una passione autentica, se pur letteraria, capace di rimettere in movimento la partita e cancellare gli effetti di una sorta di “collettiva epocale anestesia”, come la stessa Ravera definisce la cifra stilistica degli anni che viviamo. Ma l’autrice non si accontenta dell’amore. Il romanzo trabocca di accorate definizioni del cuore e le sue maniere, ma il tema fondante l’intero plot narrativo non è semplicemente l‘amore, quanto i suoi necessari molteplici artifici.
Quella che l’autrice mette in scena, dunque, è proprio quella chiamata ancora oggi The comedy of errors, ma lo fa con i toni della truffa e della disperazione. Per mettere in atto una vera rivoluzione sentimentale, infatti, ci vuole una sorta di sorprendente e articolata epifania. Una donna epifanica, appunto. La donna immaginata dall’autrice è dunque molte cose insieme. Serva, femmina, donna, mentore, complice silenzioso. Una rappresentazione strutturata per piani e punti di vista. Non è mai chiaro infatti se questa donna menta o dica il vero; cosa riveli e cosa taccia; fino a che punto finga e perché, quanto sia reale la luce che sembra le si accenda negli occhi. Dinanzi ad una donna come questa, che sa di casa, di desco, di odorose mura domestiche, che edifica familiarità laddove prima era il deserto e che lascia intravedere altri mondi senza svelarli del tutto, senza imporli, ci si aspetterebbe la stesura immediata di un contratto di lavoro a tempo indeterminato. Invece tutto evolve verso la passione e il contrasto. Lei cucina splendidamente, legge Perec, parla francese, ascolta musica classica, veste notturni abiti da sera. Ha un’età indefinibile, modi riservati e biondi, eloquio raffinato e schivo. Rivela profili quasi inconciliabili con quelli propri di una colf, ma che illuminando la casa finiscono per illuminare anche chi la abita, inducendo stati di grazia e benessere. Un personaggio così si presta splendidamente al tormento amoroso, ma anche all’equivoco, all’infingimento, all’autosuggestione, che è elemento imprescindibile della passione stessa. La creazione di un personaggio come questo consente all’autrice di giocare a piacimento con le categorie tradizionali, coi ruoli maschili e femminili, con gli schemi ai quali ogni giorno nonostante tutto, siamo ancora costretti, ribaltandoli, finalmente contaminandoli.
Il romanzo racconta, in un crescendo altamente sensuale, questo evolvere della mente, del cuore e del corpo, con cadenze che a volte si tingono di giallo, in altri di erotico cinismo.

“La gabbia si apre e l’ego prende aria.”

E’ così che solitamente prende forma la passione: partendo principalmente da sé. Rompendo gli argini e rovesciandosi sul mondo. Quell’editor glaciale vede in questa donna, spuntata fuori dal nulla col suo bravo grembiulino e la crestina inamidata, tutto quello di cui lui ha bisogno. Vede un nuovo se stesso.
Lei di contro recita accortamente la sua parte, rivestendo posizioni femminili e maschili nello stesso tempo. In parte soddisfa le aspettative, in parte sfugge. Tutto s’incastra perfettamente: sogni, desideri, immagini, bisogni. La Ravera, infatti, è splendida nella descrizione di questa donna/uomo, che ha della donna il potere del corpo e la conoscenza, mentre dell’uomo le regole psichiche, i codici primitivi, gli impulsi. Pennella così i tratti di una giocatrice matura, di una regista esperta e di un’attrice navigata, che sa come farsi contenitore accogliente dell’altrui proiezioni, che sa di quale materia sono fatte le emozioni e sa come usarle. Regina della casa e del letto, fatta di vetro trasparente, è in grado di raccoglie tutta la luce all’esterno, brillando di tutto e del contrario di tutto.
Con una regina così è inevitabile lo scacco al re, come si evince dalla copertina del libro. Nel momento dell’innamoramento la narrazione sale di tono, diventa trionfale, una sorta di inno alla gioia. Il giudizio morale è sospeso e il rischio si eleva insieme alla posta in gioco. Finalmente il Sentire! I personaggi, l’editor, la sua giovane amante, la sua ex moglie, gli amici, la misteriosa cameriera, che fino ad allora erano stati elementi di un insieme omogeneo, membri diversi di uno stesso gruppo, diventano unici, ciascuno a suo modo. Perché è vero: l’amore ti estrae dal mucchio. Ti fa sentire unico e irripetibile. Ti trasforma in un eroe solitario ed illogico. Offre alle strade che percorri abitualmente un’enfasi epica, emozionale, altissima, prima sconosciuta. Ti sveglia in un letto nuovo e importante. Forse è un inganno, un gioco d’azzardo, ma accade. E ne abbiamo bisogno. Così come una donna di servizio che, per le ragioni le più varie, voglia essere amata, sarà in grado di altissime prestazioni, questa illusione è l’unica ragione per cui chi ama o crede di amare diventa capace di grandi cose. Chiedersi se stia amando davvero e perché, di chi sia la colpa o il merito, a volte può essere fuorviante.

Le seduzioni dell’inverno, Lidia Ravera, Nottetempo, 2008, €14
Fonte www.musicaos.wordpress diretto da Luciano Pagano

sabato 20 settembre 2008

Katy Perry - I kissed a girl





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giovedì 18 settembre 2008

Elisabetta Liguori su Valeria Parrella e il suo Spazio Bianco

Valeria Parrella si cimenta per la prima volta con la forma del romanzo e sceglie caparbiamente di farlo attraversando uno spazio bianco di solitudine.
Sceglie di scrivere di una specifica tipologia d’attesa bianca e femmina.
Uno spazio bianco, quando c’è, lo riconoscono tutti, sia uomini che donne, ma quasi nessuno ha il coraggio di guardarci dentro a fondo. Prima di capire come mai, è forse più opportuno chiedersi qui cosa sia esattamente questo spazio bianco. Come sanno bene anche gli scrittori, che di ogni nuova pagina sfidano proprio il candore, lo spazio tra due elementi grafici è essenziale al fine di mettere in relazione più segni, per guidare occhi e pensiero di chi guarda, per rendere leggibile un testo. O una vita. Maria, la protagonista della storia che Valeria Parrella sceglie di narrare, è ferma e radicale all’interno del suo privato spazio bianco. Uno spazio negativo, un’area esistenziale improvvisamente svuotata di tutto quello che prima l’affollava. Uno spazio nudo che coincide con la sua attesa. Maria è un’ultra quarantenne in bella forma, insegna in una scuola serale, è libera, impaziente, dinamica, culturalmente e socialmente avanti rispetto alla generazione di provenienza, quindi giustamente arrogante. Ed è alla prese con la sua prima figlia.

Io possedevo un’arroganza di fondo. Quell’arroganza mi era venuta dalla fabbrica….La fabbrica non inghiottiva solo chi ci lavorava, ma anche chi campava di essa, chi aspettava la fine dei turni e le sirene per costruirci attorno la giornata, una giornata dopo l’altra. Crescere figlia di operaio negli anni settanta, e poi proprio per questo studiare, intestardirsi sui libri, diventare la generazione dello scarto intellettuale, erano cose che davano una certa arroganza. (pag.57)

Maria, si denuncia sin dalle prime righe: è una donna che non sa aspettare, che non l’ha mai fatto. Neppure sua figlia sa farlo: è nata infatti molto prima del previsto e inevitabilmente precipitata nel limbo delle incubatrici, delle culle termiche, dei prelievi, dei monitor ticchettanti, che dovrebbero aiutarla, ora che è poco più di un feto, a nascere o a morire. Maria non può fare altro che starle vicino fisicamente. Accanto ad una figlia che non conosce, ma che, appena venuta al mondo, ha cancellato istantaneamente l’universo noto fino ad allora, lasciandola sola, nuda e bianca.
Il romanzo comincia proprio da questa improvvisa fatica, da un vuoto apparente, dallo sforzo di concentrazione che ne consegue.

Ho provato. Aspettando la metropolitana per l’ospedale tutti i giorni, ho provato a leggere saggistica. I primi tempi ci sono riuscita, perché non avevo altro se non la mia testa. Ed era una testa molto esercitata sui libri.. La testa si era esercitata così, a fidarsi solo di se stessa. E allora ritornava nell’equivoco di bastarsi da sola ogni volta che si sentiva tradita dalla realtà. ( pag. 7)

Il tema mi punge sul vivo. Una donna di quaranta anni di rado sa aspettare. Gli adolescenti con l’Ipod aspettano, gli studenti con lo zaino alla fermata dell’autobus aspettano, i bambini delle elementari durante la ricreazione aspettano, i vecchi ai giardinetti aspettano. Ma non una quarantenne. Non lei. L’ansia nutre l’età del mezzo come latte dolcissimo la bocca di un neonato rabbioso. Valeria Parrella, classe 1974, sembra saperlo, così che la sua è la storia di una primipara attempata, che sa fortemente di verità.

Ventidue settimane e sei giorni è il limite temporale fissato dal Ministero della Salute oltre il quale è consentito far nascere un prematuro e tentare di salvarlo. Ventidue settimane e tre giorni è invece il termine consentito per interrompere una gravidanza.
C’è uno spazio bianco di tre giorni tra un termine e l’altro, tra l’essere e il non essere, un breve fiato durante il quale è dato scannarsi a preti, vecchie e nuove femministe, giuristi incalliti e scienziati timidi. Un piccolo spazio sempre utile ad assumere nuove consapevolezze, a prescindere dalle declamazioni di principio. Uno spazio astrattamente libero. Un’ occasione.
Oltre questo primo intervallo temporale a volte può dipanarsi, per il prematuro e chi gli sta accanto, un ulteriore e più ampio spazio bianco. Qualcosa di ancora più raro. Un’ulteriore imprevista occasionale attesa, sulla quale di rado si riflette. Un fraseggio temporale che in modo sconosciuto annuncia la vita. Durante questo specifico momento bianco è offerto credito soltanto ad una medicina incerta, al dubbio, alla speranza, alla pietà, stimoli efficaci esclusivamente per coloro che ne subiscano davvero il fascino o ne abbiano la forza.
Intorno a questo abusato concetto di speranza Maria si aggira come un cerbero davanti al confine. Si punisce. Si nasconde. Si dispera. Invidia i vivi quanto i morti.
Finché c’è vita, c’è speranza, così si usa ancora dire, ma quella della sua creatura in incubatrice che vita è? Che vita sarà? Da quale tipo di speranza può essere alimentata?
Maria non sa aspettare, come molte altre donne della sua età è scettica, spaventata. Tenta di farlo, leggendo libri o mettendosi a fumare lente sigarette dentro i finestrini dei bagni pubblici, tra i piccioni e la puzza indolente dei macchinari che, ronzando, bruciano cellule, plastica e alcol.
In questo modo finisce per scoprire frammenti di sé che non conosceva affatto. Ed è una sorpresa per sé e per gli altri. Quella attesa, che molti potrebbero ritenere una circostanza ovvia, diventa per lei l’unica cosa veramente sua, inaspettata e piena e vera.
L’unica cosa che valga la pena insegnare ad altri.
La Parrella racconta la scoperta di questi mesi di femminile attesa con la sua, ormai nota, voce roca, rabbiosa, disillusa, quasi volutamente sciatta. Racconta l’abito, il viso, gli amici, le assenze, gli alunni di questa donna, mentre lo spazio bianco s’allarga su Napoli, la ricopre, la sommerge fino a zittirla. Lo fa con una comicità complice e compassionevole, oltre che dolente. Portando spesso prospettive umane dirompenti.

Io la guardai con un’aria insofferente perché non mi sembrava il caso, bardate come eravamo di mascherina e guanti e con la mente ossessionata dal pigolio dei monitor, che si ricominciasse con il “potrebbero ancora sopravvivere”. Chiaro che fuori, al sole, dentro le macchine, al distributore di caffè, quello che tutti si aspettavano da noi era un sentimento del genere. Ma almeno qui dentro no.

* Tutto sommato abbiamo avuto un culo enorme.
* Mina, ma perché?
* Eh, le altre mamme si sono dovute accontentare dell’ecografia: noi stiamo vedendo tutto dal vivo.

(pag. 29)

Mi par più che giusto chiedersi oggi: cosa ci si aspetta da una donna? Che si senta madre sempre e comunque? O che faccia stentoree rivendicazioni di forza, uguaglianza, libertà, quasi fosse perennemente in corteo con le dita a triangolo? Quando è del corpo che si dispone, è chiaro, ma di un corpo che naturalmente si mescola ai desideri, alla cultura, alla legislazione, all’etica e all’istinto altrui, secondo quali criteri deve modellarsi l’individuale senso di responsabilità? Etica, diritto o scienza? Istinto o più semplicemente casualità del male? O letteratura?
La sua Maria non ha un uomo accanto. Quell’uomo che deve pur esserci stato prima o poi, le appare di frequente in dolci, fuggevoli ricordi. Solo la nascita di quella loro bambina, rinchiusa nel suo spazio di bianca attesa, sembra consentire alla madre la completa ricostruzione del senso del suo rapporto con quell’uomo. La conquista della sua libertà così sta proprio nel prendere coscienza di avere i mezzi per farne a meno.
Maria è una donna complessa, un prisma d’interrogativi che rivendicano il proprio imbarazzo, la propria incapacità, i propri limiti relazionali. Maria è una donna imperfetta, quindi. Esattamente come lo è la bambina che lei ha messo al mondo in fretta e furia. E la sua imperfezione coincide con la sua identità. Questo scrive con caparbietà Valeria Parrella e l’affermazione ha una sua logica, strutturale, narrativa perfezione; mettere al mondo qualcosa/qualcuno è un fatto d’identità. Prima di essere madre o sentirsi tale, si è solo un buco vuoto. Dopo è diverso. Lo sanno bene le donne, soprattutto quelle che invecchiano, ma lo sanno anche le ragazzine che si ritrovano una morula in grembo e non sanno che nome dargli. È da quel buco vuoto che si comincia.
Maria non si aspettava di trovare attraverso quella figlia prematura e inerte una nuova identità, ma invece quell’orribile spazio bianco che le è imposto diventa per lei una lente finalmente capace di modificare la prospettiva delle cose.
Eppure le fa paura. Quella con la quale si confronta Maria non è semplicemente paura della morte, la quale tutto sommato ha una dignità assoluta, riconoscibile e chiara, senza le lusinghe instabili della speranza. Accanto a lei in ospedale c’è la paura altalenante del buio, di una malattia ignota, di un’inabilità imprevedibile, di una solitudine senza confini. Come sarà questa figlia messa al mondo in assenza di scelte? Sarà donna, sarà viva, respirerà da sola, camminerà da sola, avrà pensieri liberi e coscienti? Lei lo sa? È questa la domanda che in corsivo attraversa tutto il romanzo. Interrogativo che la protagonista e la narratrice sembrano rivolgere al lettore. Una specie di retro pensiero che blocca tutti gli altri.
Perché lo spazio bianco è principalmente ignoranza. Una provvisoria angosciante necessaria ignoranza. La bimba prematura nel suo lettino meccanico senza risposte, col suo corpo piccolo come un bottone, rappresenta tutto quello che di sconosciuto può riguardarci e, nello stesso tempo, fornisce a chi lo cerca un cavillo per proteggersi durante il tempo necessario cambiamento e per sfuggire a quella sempre più diffusa sensazione d’inadeguatezza che provano oggi le donne, e forse anche gli uomini, davanti ad un mondo che nemmeno piace loro fino in fondo.
Ecco perché guardare dentro uno spazio vuoto fa tanta paura.
Perché dentro la sosta non c’è nulla e tutto quello che conta sta fuori. E a volte fa male.
Fuori da quello spazio bianco la vita continua anche senza Maria. Quella identità oggettiva che è nelle cose e nell’esistenze altrui si fa sempre più aliena, ma inarrestabile. La Parrella è bravissima nel descrivere la sosta di una donna e l’imperturbabile movimento dello sfondo dietro di lei. Napoli continua la sua corsa. La metropolitana va per suo conto ogni mattina, l’ospedale brulica, così le strade fuori, la scuola serale, la sopraelevata sui palazzi di piazza Ottocalli.
La vita continua uguale a se stessa mentre Maria resta ferma in un corridoio, con indosso sempre lo stesso vestito, con l’impressione netta e tragica che le cose accadono da sé. E l’unica libertà, novella e utile, concessale è proprio quella dell’attesa.

- Lei lo sa?
- La tua non è una domanda e non stai aspettando una risposta.

(pag. 61)

Lo spazio bianco, Valeria Parrella, 2008, Supercoralli, EINAUDI, p. 120, 14.8€, ISBN 8806190962

Fonte www.musicaos.wordpress.com diretto da Luciano Pagano

mercoledì 17 settembre 2008

Serena De Carlo intervista Pierluigi Mele

Intervista a Pierluigi Mele, da Il lessico dell’illusione in Pierluigi Mele

Estratto di tesi di Laurea in Linguistica Generale. Corso di Laurea in Scienze della Comunicazione, Università del Salento A. A. 2005/2006.


Perché ha scelto di scrivere poesie?
La poesia è una forma dello sguardo, è più probabile che sia lei a cercarti. Probabilmente nasce quando pretende, per oscuri percorsi, il trasfigurato, il rimescolamento delle carte, lo scuotimento dei segni. Cresce allora per una sorta d’inquietudine, come a voler raschiare il fondo di un terreno. Come se la penna, per dirla con Seamus Heaney, valesse quanto la vanga del contadino. Ed è con la penna che un poeta scava.

Quanto è influenzata la sua poesia da altri generi artistici (teatro, cinema, musica)?
L’influenza è totale. Non ricordo se sia stato Alberto Moravia a sostenere che un poeta, quando è a contatto con l’arte, è in casa propria. Forse perché il suo codice espressivo non mira tanto alla comunicazione, all’informare un eventuale pubblico su accadimenti, opinioni, indici di gradimento e mode. Il datore di lavoro della poesia, la sua paga e la sua bolletta, è la bellezza. Che si muove ovunque, nei bassifondi come sul tram, in un quadro come nelle sale d’aspetto.

Come nascono i suoi versi?
Dal distacco. Questo cadenza le occasioni e le finzioni della scrittura, lasciando la possibilità alle cose di disperdersi per poi ritornare sotto una più definita veste nel corso del tempo. Il Tempo, questa religione laica di un poeta per me molto importante come Iosif Brodskij. Secondo il quale “chi considera la poesia un modo per passare il tempo, una “lettura”, commette un crimine antropologico, in primo luogo contro se stesso”.
Se lo scritto giornalistico abbraccia ed offre l’immediatezza della cronaca per subito stracciarla, la poesia penetra il contingente trasfigurandolo, prendendone le distanze, e fissa tanto il metafisico quanto il quotidiano con uno sguardo affilato nella metafora.

Come avviene la selezione e la combinazione delle sue parole?
Nessuna parola può essere lasciata al caso, anche se dal caso quasi sempre proviene. Le parole devi quasi sbiancarle per riuscire a penetrarle. L’agognata limpidezza dei versi è il risultato di un inesauribile flusso e montaggio, di attesa e ritorno a distanza allo scritto per verificarne i frutti. Un lavoro di sottrazione che punta all’essenza delle cose. Nello spazio brevissimo dei versi, devi contenere quel respiro, quella particella di vita che può essere detta solo in una forma e non in un’altra, con parole nette, definitive, lievi e pesanti insieme.

Crede che la poesia sia il veicolo più diretto per comunicare il suo pensiero?
Credo di sì. Come nella mia produzione teatrale, lo sguardo è sempre di natura poetica. Questo sguardo tende a sgombrare il campo dalle pastoie dell’Io e a misurarsi senza paraocchi col mondo. Parlare di un tramonto, di un’alba o di un autunno equivale ad affermare la vitalità che queste evidenze scatenano, evidenze a cui spesso non prestiamo ascolto proprio perché pensate “dovute”. È con queste evidenze della natura, ma non solo in queste chiaramente, che possiamo avvertire i segni di maturazioni e decadimenti nostri e della stessa lingua.
Un film o una musica per me sussiste soltanto se d’autore, perché espressione autentica di ricerca fatta con quello sguardo poetico senza il quale l’opera cinematografica o sonora risulta un prodotto industriale, legittimo ma destinato al consumo in serie. “D’autore” però non significa di noia. Parlo piuttosto della capacità di rinnovamento, di estro. Pensi all’architettura musicale di Bach, o alla forza di un certo quotidiano in Luigi Tenco. Ad Orson Welles, secondo me il più grande cineasta del secolo. Il suo incompiuto Don Chisciotte è genio allo stato puro. Spesso Welles ha portato sullo schermo storie della letteratura (Kafka, Shakespeare, Cervantes) e sempre con uno sguardo straordinario.
L’aspetto ludico, estemporaneo dell’atto poetico non è escluso da una visione d’autore, tutt’altro. Perché regna un elemento fondante sull’arte: l’istinto, o l’improvvisazione, per dirla col jazz. Per esempio: l’orecchiabilità e quindi il successo di molte canzoni del patrimonio musicale è stato concepito proprio dal guizzo dell’autore, che ha saputo pescare dal fondo il “bene” comune. Lei scuserà questo mio continuo richiamo alla musica, ma credo che appunto una canzone sia destinata a vivere più di tutti i libri che leggeremo.

Quanto incide nella sua scrittura l’ambiente salentino in cui vive e quanto il suo luogo straniero di nascita?
Il Salento non esiste. Il Salento rappresenta un luogo mentale dove si danno appuntamento i fantasmi, le sirene, le suggestioni d’infinite terre. Indica allora una terra che vive innanzitutto nei miti. Significa perdersi in racconti, suoni e colori; o nella luce meridiana, particolarmente amata da quello squisito editore (non ne nasce che uno per secolo) che è stato Vanni Scheiwiller.
Il Salento architettonico, terrestre, marino e culinario è di matrice culturale, non pubblicitaria. Origine comune, credo, a qualunque terra di mito, tanto per affermare non la supposta ed esclusiva identità del Salento, ma la sua alterità.
Quanto al luogo di nascita, esso assume la medesima caratteristica, in quanto luogo di sensi e di rimandi in perenne ritorno. Non posso tacere le suggestioni che il Nord ha esercitato in me: i profumi del verde, della neve, l’aria così folle del favonio, e un ordine, una disciplina che riguarda anche, senza portarla alle lunghe, la puntualità.

Esiste un “lettore-modello”?
Non sempre. Talvolta esiste un lettore immaginario, comune, della porta accanto con cui confidarsi, in un rapporto che vuole provocare sintonie sentimentali. Non credo che si scriva per dei club elitari, se la materia del poetare intende parlare con tutti. Altre volte questo “lettore invisibile” ha un nome, per esempio Oreste Macrì.

Presuppone nel suo destinatario un determinato tipo di formazione culturale?
Non puoi nascondere l’elemento formativo, l’educazione culturale di un lettore. Parlare con tutti è un voler parlare all’intelligenza del cuore, non è il vociare da comiziante. Piuttosto è la prova che fa coincidere lo scritto con il vissuto, che sono dimensioni di un’unica espressione esistenziale. La poesia può essere un fiato che s’insinua nei sensi del lettore, che lo istiga, lo accende e lo mette alla prova. Altre volte è un dialogare con la lingua stessa, in un corpo a corpo che può deliziare o sfinire.

Qual è il significato delle ellissi, delle allusioni, delle citazioni esplicite e indirette che compaiono nei suoi testi?
Forse tutti noi non facciamo altro che riscrivere. L’intera storia della letteratura è un interminabile processo di ri-montaggio. Io sono ciò che leggo e che rubo con gli occhi, esattamente come sono il figlio di una precisa coppia. Sono ciò che ascolto, che imparo e ricerco. Non si tratta di ostentare una presunta biblioteca, ma di abitare con entusiasmo la cultura. Vuol dire rendere testimonianza, tributare chi ha contato.

Chi sono gli “inquilini assenti” di cui parla in una delle sue poesie?
A volte sono questi fratelli o padri della scrittura perduti lungo la strada, che ritornano come dei gatti invisibili dalla finestra. Sono i poeti sconosciuti ai più, spesso scoperti per caso. Autori da ricordare nella maniera più semplice: parlandone, leggendoli ed invitando a farlo.
Ma non sono soltanto questi gli inquilini di cui lei mi chiede. Sono anche gli affetti privati da custodire e difendere con pudore contro il cattivo gusto dell’esibizione, dello svenevole sentimentalismo.

Qual è l’importanza e il senso delle immagini che ritornano più frequentemente nella sua poesia?
Pensi alla stanza a lei più cara della sua casa e agli oggetti qui riuniti, i libri, i monili, le coperte, quello che crede. Immagini ora che gli oggetti comincino a parlare o a muoversi come persone e animali, a provare dei sentimenti di noia, amore, solitudine etc. E che attraverso di essi lei riesca a vedere oltre la sua stanza, alla sua memoria per esempio. In questo gioco il senso canonico del tempo non regge più, perché lei si serve di un oggetto abitudinario come ad esempio un pettine per parlare non so, dei suoi quindici anni. Di momenti dell’esistenza che nella sua stanza non vivono più. Che non sono però sepolti, semplicemente sono altrove. Lei quindi può arrivare a suggerire un’idea del tempo solo attraverso delle figure, come il pettine. Estenda questo gioco dell’illusione a tutto il resto. Noterà come solo le figure contino davvero, di figure ci serviamo per sopravvivere all’oblio. Per questo motivo talvolta utilizzo figure che nel quotidiano non amo, come i gatti, ma che ti consentono come nessuno di provare quello sguardo in profondità di cui è fatta la poesia. È come se vivessi, in quello spazio d’invenzione, da gatto, arrampicandomi dove come uomo mi sfracellerei.

Che cosa significa essere un poeta oggi?
Forse essere scomodi. Oggi come ieri vuol dire non appagare né appagarsi di ipocrite seduzioni, siano queste di natura politica, sociale o esistenziale. Vuol dire coltivare l’inquietudine, scandagliare più che scandalizzare. Stupirsi delle idiozie così come dell’ignoto. E riservarsi un sorriso e una buona battuta, perché prendersi troppo sul serio non mi pare una cosa seria.

Lei sembra contestare indirettamente il sistema culturale attuale. Ipotizza nuovi sistemi? Quali?
Dico solo questa ovvietà: la mercificazione assoluta dei sentimenti sbattuti in prima serata come intrattenimento da deficienti, non è il prodotto di una scelta avulsa da tutto il resto. Se la televisione, per cominciare, si permette di profanare così impunemente la vita (in nome, tra l’altro, di una bugiarda democrazia interattiva), vuol dire che forse nella scuola, l’editoria, la politica, la famiglia qualcuno si è appisolato, si è preso una bella vacanza dalla rivolta. Credo che la cultura sia la rivolta permanente, vissuta attraverso i libri, la musica, il teatro, così come al supermercato, nei campi, in ufficio. La poesia non vive aristocraticamente sulla pagina. Quella della pagina non fa altro che scovare la poesia nascosta nelle pieghe del tempo.

Come definirebbe la sua poesia?
Le domande difficili le lascio a lei.

lunedì 15 settembre 2008

Babsi Jones vista da Rossano Astremo

Quattro donne sotto assedio a Mitrovica, in Kosovo, durante il conflitto più dimenticato della storia moderna: la guerra fratricida nella ex Jugoslavia. Un’inviata scrive al direttore della testata per cui lavora pagine di un reportage che mai sarà spedito. Ci sono passi di rara bellezza in Sappiano le mie parole di sangue, l’esordio di Babsi Jones, edito da Rizzoli, nell’onnivora collana 24/7, pagine in cui Mitrovica diviene la parte di un tutto, luogo del tragico che s’annida in ogni guerra. E’ questo spazio tragico che l’io narrante di slmpds cerca di mettere in scena, attraverso l’accumulo di parole su un taccuino prezioso, ultimo oggetto da custodire assieme ad una copia sdrucita dell’Amleto tradotto da Cesare Garboli. Ma le parole non possono raccontare una guerra. Il reportage non verrà mai spedito perché è un manufatto che non rende giustizia a ciò che gli occhi vedono, a ciò che la bocca assapora, a ciò che il corpo sente.Ed ecco che Babsi Jones costruisce un quasiromanzo nel quale si sente fortemente l’influenza della teorie elaborate da uno dei grandi maestri della letteratura del Novecento: William Burroughs.Il Verbo è il male assoluto, ciò attraverso cui niente può sfuggire all’essere dell’identità: Burroughs postula un rovesciamento della logica implicita in ogni ontologia. Attraverso l’essere, l’uomo è prigioniero della lingua, definitivamente separato dal “teatro biologico”. Egli è contaminato dal virus del linguaggio. I suoi libri compiono una mirabolante descrizione di questa contaminazione. Il conflitto manicheo che vi si trova sempre soggiacente è quello del corpo contro il “meccanismo verbale”, che lo rende estraneo a se stesso. Per sfuggire all’intossicazione prodotta dalle parole, al quadro di controllo che, imponendo delle linee associative, rafforza questa possessione, lo scrittore deve rompere il cerchio magico, spezzare le tavole della legge associativa, confondere le piste discorsive per uscire dall’algebra del bisogno e abolire la dipendenza assoluta dalla funzione asservitrice della comunicazione linguistica.Babsi Jones ha scritto il suo quasiromanzo tenendo ben presente l’insegnamento di Burroughs. Decostruire dall’interno il linguaggio, depotenziarne il suo quadro di controllo. L’inviata non spedisce il suo reportage perché il genere è un insulso meccanismo di soggetti-verbi-complementi inadatti a sprigionare l’orrore della guerra. La guerra, ogni guerra, è indescrivibile, inenarrabile. Sappiano le mie parola di sangue è la rappresentazione di questo fallimento narrativo. Le parole non dicono, sono stracci lacerati dai quali zampilla liquido di morte.

La funzione Burroughs in Sappiano le mie parole di sangue, di Rossano Astremo
da www.vertigine.wordpress.com

domenica 14 settembre 2008

Amore e libertà di Maria Zimotti

Se un figlio si accorgesse che per caso
è nato tra migliaia di occasioni
capirebbe i sogni che la vita dà
con gioia ne vivrebbe tutte quante le illusioni


(F.Battiato, Energia)

Non hai forza per tentare
di cambiare il tuo avvenire
per paura di scoprire
libertà che non vuoi avere


(F.Battiato, Il silenzio del rumore)







Scrivere di te non è facile.
Dei tuoi occhi azzurri vuoti e pungenti.
Degli abbracci che vorrei darti per soffocare il tuo dolore.
Sono io la colpevole come una di quelle megere delle novelle di Pirandello.
A che serve leggere?
A che serve scrivere?
Guardare tutta l'umanità, raccoglierne tutte le confidenze, leggere negli occhi quando non ho saputo leggere nei tuoi?
E nella notte te ne vai verso la vita disperata, disperando la felicità.
Io non ti aiuto.
Viscide sono le mie mani che vogliono trattenerti.
Solo senso di possesso.
Avrei voluto che le tue braccia mi stritolassero.
Marmo freddo il tuo cuore che batte.
La morte mi avvolge, hai detto.
Ora che sono sola ci ripenso a quelle parole e sono punta nel mio orgoglio per non averti capito.
Ma come posso capire se è il mare che ci separa.
Il mare ci allontana.
Si agitano false verità nelle tue parole.
Ti amo veramente e con in mano la mia psicologia empirica e spicciola ti vedo seduto al tavolino di un bar, a Villa San Giovanni, nella periferia milanese densa di pugliesi.
Da lì sei partito, prima, prima di conoscere questa vita che vuoi buttare come Adriano Meis.
Guardale, guardale queste strade amore mio.
Libera il tuo cuore dalla vernice gelida del pessimismo in cui l'hai soffocato e richiama i ricordi.
Non tutti sono brutti, angoscianti.
C'è una ragazza insipida, diremmo, che ha gli occhi annacquati da miope che nel grigio cielo della grigia periferia esce da scuola tra pozzanghere.
Gli occhi sono sognanti perchè ha nella testa un grande amore.
Il tutto.
Non ti guarda neanche nella tua divisa ostentata come trofeo, come la portavano i semplici ragazzi degli anni 60.
Amore di casualità d'incontri nelle immense compagnie evocate da Max Pezzali.
Amore di domeniche piovose, con piccole pulsioni pomeridiane, languori brevi e sonnolenti.
Quelle domeniche di Toto Cutugno e del partigiano come presidente.
Le vedi quelle domeniche amore, in questa Milano spenta e non solo perchè è notte?
Io le vedo.
Mi basta un attimo, uno sguardo di striscio mentre sono in macchina e passo davanti a quel maneggio abbandonato dove abbiamo diviso e unito le nostre angoscie.
E tremavi...
La nebbia dell'85 ha regalato venti giorni d'oblio, di notte perenne come la notte prolungata del Polo Nord.
Tu non le vedi quelle notti.
Quelle notti di finestrini appannati.
Certe cellule, dicono gli studiosi del cancro, contengono in sè la predisposizione a degenerare.
Basta poi un piccolo, aleatorio, vago, non definito detonatore ambientale a fare avvenire la debacle.
Tu non le vedi quelle notti, non ti fanno tenerezza i ricordi perchè ciò che in silenzio è avvenuto dentro di tè mentre ti imbottivi di false verità è arrivato al culmine e ha velato i tuoi occhi.
Io non lo conosco questo tuo dolore, questo tuo dolore sordo.
So che sei lontano da me adesso.
Non mi vuoi, non la vuoi più quella ragazza miope e tutta presa dal suo grande amore che volevi per lenire la tua solitudine.
Io la vita l'ho sempre amata e vorrei riprogrammare i tuoi geni perchè tu possa smettere di farti del male.
Mi sono sempre sentita splendida, splendida per quella goccia di vita nata per caso che ero.
Ricordi, ancora ricordi.
Fuochi d'artificio nella notte d'estate sul mare frizzante.
Nel mito del sesso mai provato era l'esplosione che aspettavo da te.
Libera lo sono sempre stata.
Tu non lo sei stato mai.
Forse mi sono veramente nutrita di te, espandendo la mia presunzione, aprendomi alla vita con un noi che era solo io.
Quando è successo?
Quando è successo che hai deciso di andare nel vuoto, per provare la vertigine di un'altra vita?
La libertà che ti ha portato ad essere solo nella notte, seduto al tavolino di un bar?
Mi ha raccontato un caro amico, uno dei tanti uomini di cui avrei potuto innamorarmi, di vasi che si riempiono e l'acqua che a un certo punto non ne può più e deve uscire, deve uscire.
Meglio farla uscire ogni tanto, sfiatare un poco per evitare che poi debordi del tutto.
E io ho capito che non capisco niente degli uomini.
Alla deriva, alla deriva.
Ora l'acqua ha allagato tutto, non c'è rimedio.
E in questa nuova vita stai annegando.
Ed è colpa mia.
Io ti dirò, per quella mia insistenza a mettere a posto le cose, che la vita è bella, è un miracolo.
Ma io sono l'idea e la realtà.
La realtà è questo voler raccogliere quest'acqua con lo straccio per poterti trattenere con me.
E ti dovrei lasciare andare, perchè la vita è bella e quando uno non sta bene se ne va.
Ma come rinasci amore mio?
Come rinasci senza radici?
E mentre tu rinasci io muoio.
Muore l'idea, quell'amore che avevo costruito sull'ebrezza dei miei sedici anni, quando pensavo che la vita era uno stato di diritto.
E quando aborrivo l'aborto, ricordo, nonostante il mio rispetto laico per tutte le idee.
Perchè i miei figli futuri, l'idea di loro, erano già dentro di me.
E avrei voluto essere tua madre, perchè avrei saputo come prendermi cura di te, avrei capito.
Ti avrei insegnato che ogni minuto è prezioso.
Ti avrei insegnato ad aprire le braccia.
Ti avrei letto negli occhi.
Sei tu la mia sconfitta.
Ed io sono la tua.
Si sono rotti gli argini.
Tu non sei più nella noia rassicurante delle quattro mura che i tuoi occhi guardavano inquieti.
Nella tua libertà ricorda che ogni minuto è prezioso, non cercare altri oblii, sogna, se ti riesce.
Io aspetterò sempre come la disillusa figura di un quadro espressionista degli anni trenta visto da bambina sull'Enciclopedia dell'Arte.
Capo chino di lato accanto ad una tavola apparecchiata per un uomo che non arriverà mai.
Attesa vana come le tante notti in cui non tornavi.


l'opera in questa sede proposta è di Tamara de Lempicka (Tamara Rosalia Gurwik- Górska)

Ricevo Il Premio Airone di Stelle da Editori Notatemi
















Ringrazio Scrittrice75 curatrice del blog
Editori Notatemi-http://cio-che-desideri.blogspot.com/
per aver dato il premio anche al mio blog. Inoltre linko i sette blog
segnalati
Grazie di cuore
Paola Scialpi


Le regole
del Premio Airone di Stelle

1) scegliere 7 blog che si considerano meritevoli di questo premio, perchè ci insegnano ogni giorno a vivere qualcosa in più, sia con la mente che con il cuore

2) esibire il premio, riportando il nome del donatore e il collegamento al suo blog, così che tutti lo possano visitare;

3) riportare i nomi dei premiati e i collegamenti ai loro blog;

4) il premiato è pregato di mostrare il collegamento al blog picnicconlefragole, dove nasce l'iniziativa (anche lanostraafrica va benissimo, tanto siamo sempre noi);

5) pubblicare queste regole


I sette blog:

1)Picnic con le fragole - http://picnicconlefragole.splinder.com/
2)Editori notatemi - http://cio-che-desideri.blogspot.com/
3)La casa degli orrori - http://lacasadegliorrori.blogspot.com/
4)Il Paradiso dei dannati - http://paradisodeidannati.blogspot.com/
5)Living in the material world - http://carmencita-pattie.blogspot.com/
6)Fuori dal ghetto - http://abbattereipregiudizi.blogspot.com/
7)Scripta manent et verba volant - http://giuseppebovino.blogspot.com/

sabato 13 settembre 2008

Dario Giancane dona il suo materiale documentativo al Laboratorio di Ricerca sull'Arte Contemporanea di Paola Scialpi




















Ringrazio Dario Giancane per aver inviato il suo materiale documentativo nella sede del Laboratorio di ricerca sull'Arte Contemporanea in via Caracciolo 19 a Lecce, da me diretto. Una produzione, quella di Giancane, sicuramente densa di ricerca non solo negli accostamenti cromatici e nella selezione dei materiali (vedasi l'opera Le sbarre della democrazia qui presentata), ma anche nella tensione verso una denuncia sociale forte e ironica (vedasi Nei bagni del G8 presentata in questa sede).
Auguro a Giancane di credere nell'Arte e nel suo messaggio.

Paola Scialpi

Dario Giancane

Nasce a Lecce il 18/05/1982 e tuttora nella provincia (Arnesano) lavora alle sue creazioni in ferro. Si laurea col massimo dei voti in decorazione, sotto la guida dello stimato prof. Giuseppe lisi, presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce nell’autunno del 2006. Sin da bambino si forma e lavora, con precoce e sicura vocazione per l’arte accanto al padre, maestro artigiano del ferro battuto, dal quale acquisisce i segreti di un mestiere e di una tradizione antica. Dal 2003 intraprende la sua carriera artistica riscuotendo entusiastici consensi e partecipa a numerose collettive e concorsi collaborando con artisti affermati. L’intuizione creativa e il temperamento passionale hanno portato l’artista a volersi scontrare con la durezza del ferro, materiale così difficile da domare, plasmando tutti i tipi di leghe metalliche e soffermandosi con maggior estro sulla tecnica dell’ageminatura. L’impatto con la superficie dura delle lastre di ferro che incide e la forza creativa del fuoco ci induce a pensare che è la difficoltà del mezzo espressivo che contribuisce alla buona qualità delle sue opere.

Web: www.dariogiancane.it

Le Donne della settimana n.2











Anna Faris
Mallika Sarabhai
Julia Roberts
Tamar Yarom
Micky Modo
Jamaica Kincaid
Lea Melandri
Ermanna Montanari



fonte iconografica www.centroartivisivepescheria.it
opera di Cristiano Pintaldi

venerdì 12 settembre 2008

Cristiana Palandri, domani ultimo giorno espositivo















GALLERIA DANIELE UGOLINI CONTEMPORARY


Via Montebello 22r (50123)
+39 0552654183 (info), +39 0552654183 (fax)
director@ugoliniart.com
www.ugoliniart.com

La mostra apre alla forma e alla sostanza poetica di questa giovane artista. Le opere riflettono inquietudine, disordine, metamorfosi, attraverso l'uso di materiali organici. Come nell'opera Zero (2008): un asse di legno lunga 6,5 metri posizionata in modo irreale tale da sconfiggere le leggi della dinamica, che termina con una scultura fatta di ossa, capelli e garze mediche

orario: Lun - Ven 16:00 / 20:00, Sab-Dom e festivi su appuntamento


catalogo: Essay in catalogo di Milovan Farronato

autore: Cristiana Palandri

fonte www.exibart.com

Eliana Forcignanò vista da Elisabetta Liguori

I nostri figli hanno bisogno delle fiabe oggi?
Da donna moderna quale aspiro ad essere, da donna che vuol sentirsi al passo coi tempi, da donna che spesso arranca e questo passo sincopato ancora non lo ha compreso del tutto, io me lo chiedo di frequente. E poi si fa presto a dire fiabe. Quali fiabe? Non tutte le fiabe sono uguali, questo è evidente, sebbene qualcosa le accomuni. E se è vero che certe narrazioni di genere antico sono e restano espressione del Senso dei popoli; se è vero che, come lo stesso Freud sosteneva a proposito dell’Interpretazione dei sogni, esiste un nesso forte tra la psiche degli uomini e le fiabe che l’affollano; se è vero che l’immaginazione fantastica è indotta, frustata o esaltata dal quotidiano, allora la risposta non può che essere positiva.
I nostri figli ne hanno bisogno.
Questa necessità è estendibile a tutte le fiabe del mondo? Vediamo di capirlo.
Io cerco il fantastico. Perché è poi questa la chiave per distinguere ancora oggi la Favola (quella che si limita a raccontare una storia più o meno bene, con una morale più o meno efficace), dalla Fiaba in senso stretto. Il fantastico appunto. Una dimensione dell’altrove impossibile, eppure verosimile. Vicina. E’ di quello stupore convincente che i nostri figli hanno bisogno. Ed io con loro. E tanti come noi. Questo spiegherebbe, almeno in parte, il fascino suggestivo ed il grande successo editoriale della letteratura fantasy, dalla scopa fumante di Harry Potter, all’armadio bidimensionale di Narnia, fino ai draghi sentimentali di Eragon.
Per questa stessa ragione sono lieta che Eliana Forcignanò, giovane giornalista leccese, abbia scelto di esordire in questi giorni con il suo “Fiabe come rondini” per Lupo editore e il Fondo Verri: una scelta che oggi mi appare coraggiosa, quanto necessaria. La scelta della via fantastica, appunto.
La vita delle madri (e dei padri) è spesso costellata di storie di tutti i tipi. Anch’io ne ho cercate e trovate a valanghe in questi ultimi anni, così che ora sono ovunque nella mia casa, aleggiano come spiriti, fuori e dentro i miei farfugliamenti materni, dimorano tutte insieme nella stanza nella quale io continuo a rifugiarmi coi miei bimbi al buio della sera per tentare di avvicinare, con più leggerezza, idee comuni e vaste come quella del futuro, della morte, del dubbio, dell’imperfezione. Ogni volta che al mattino mi avvicino ai letti dei miei cuccioli c’è sempre un sorcio parlante che mi dà il buongiorno, mentre un cavallo alato protesta perché è troppo presto. E persino i quaderni sbuffano nelle cartelle.
Forse anche Eliana vive in una stanza come la nostra. Anche lei, nelle sue storie, racconta di un sé, disperso e fluttuante in universi fantastici, unici e personali.
E lo fa come se avesse un occhio da vecchio e uno da bambino.
Ecco, secondo me, sono proprio così gli occhi dei veri narratori di fiabe. Due occhi opposti. Atemporali. Mi pare che questo abbiano fatto, e continuino a fare ancora oggi, tutti i raccontatori di fiabe: cogliere il mondo attraverso una specie di strabismo onirico e terrestre, così da descrivere le cose che sono state e che saranno, interpretandole secondo le regole di un universo che mai sarà. Non una capacità comune. Forse un difetto di percezione.
Eliana ha questo splendido difetto.
Otto fiabe per diventare adulti, le sue.
Tanti modi sono offerti agli uomini per crescere, la fiabe da sempre sono uno di questi. Una strada semplice ed incantevole in cui ogni piccolo eroe senza risposte può cimentarsi coi giganti e uscirne sorprendentemente vivo. Quasi una fede da costruire. Cosa altro c’è, a pensarci bene infatti, al fondo di tutte le religioni del mondo, se non un’ idea come questa? Cosa alla base di ogni forma di spiritualità? Cosa se non il fascino rassicurante di una fiaba per sopravvivere e cambiare? Uno stupore finalmente rassicurante? Il desiderio di soluzione, futuro, pacificazione, meraviglia? La terra di Non so, abilmente raccontata in una delle fiabe di Eliana dal titolo “Le tre bottiglie”, è espressione perfetta della dimensione ambientale e spirituale del Dubbio con la quale tutti, adulti e bambini, siamo oggi chiamati a confrontarci. In questa storia la maturità arriva non da un padre, da un maestro, da un codice, ma dal mare. La verità qui non è imposizione, violenza, guerra di potere o indottrinamento; è invece riconoscimento dei propri limiti, esercizio di modestia, lunga arrampicata solitaria.
Sono tutti così gli eroi di Eliana: imperfetti.
Il re che non ha risposte per i suoi sudditi, la bambina allergica alla virgola che non può andare a scuola, la fata brutta a cui nessuno dà credito, la donna esageratamente bella che ha paura di perdere la libertà, il sovrano che non sa amare, lo scienziato che non vuole uscire dal suo laboratorio per paura di vivere, l’inquieta Linda che vive in un mondo igienicamente protetto ma fa la pipì nel letto. E molti altri: imperfetti, ma instancabili.
In una società che vuole costruire uomini futuri assoluti, con un Io meravigliosamente gigantesco e cieco, all’interno di famiglie che nutrono i propri figli a pane e perfezione, prepararsi per tempo al fallimento, all’incertezza, accettarla in anticipo come possibilità potrebbe significare assicurarsi una dignitosa sopravvivenza futura, garantirsi un risparmio certo domani sul costo dello psichiatra.
Un risultato importante, io credo.
Ma allora torno a chiedermi: abbiamo bisogno di tutte le fiabe allo stesso modo?
A mio parere, quello che rende una fiaba diversa dalle altre è il fine. La capacità di creare un mondo per un fine. Se un racconto mira al potere, al successo personale, alla suggestione, non può che essere fonte di violenza o artificio, se invece punta alla Felicità, alla trasformazione e alle sue rondini strane, allora, è di certo una buona fiaba. In una delle storie di Eliana la Felicità è una donna malata, che se ne sta, sdraiata ed esanime, ai bordi della città in attesa di essere accolta e riconosciuta da qualcuno. Come tutte le donne, non è una matassa facile da sbrogliare. Una caso interessante ma complicato. Quella donna per guarire cerca l’autenticità dell’Essere. Un’autenticità senza altri fini, quella dimensione cioè concessa a volte solo alla poesia.
È quella Felicità il fine delle fiabe di Eliana. Il loro vanto fuori dal tempo.
È sorprendente, ma le fiabe di Eliana, pur non provenendo da antiche tradizioni popolari, raccontano quella ricerca lenta ed affannosa con la levità delle rondini migranti e il fardello dei secoli. Tra le sue pagine il futuro incontra il passato e si riempie di meraviglia e potenziali trasformazioni. Non si deve fare altro che restare ad ascoltare.

Fiabe come rondini, Eliana Forcignanò, Lupo Editore, p. 96, 2007

fonte www.musicaos.wordpress.com diretta da Luciano Pagano

giovedì 11 settembre 2008

Care lumachine di Vivian Lamarque













Care lumachine impacchettate
che con Casiraghy, per lire quarantamila
vi abbiamo comperate, ma poi di corsa
in un bosco liberate, che vi guardate
attorno stupite, spaventate
che piano piano lungo
un sentiero col batticuore
vi incamminate ...

(da Poesie 1972-2002, Oscar Mondadori, Milano 2002 ora in Poeti intorno al Lario a cura di Pietro Berra)

fonte iconografica www.italian-poetry.org

Dalla prefazione al volume del giornalista Pietro Berra

Il Lario cantato dai poeti è, per i più, fermo ai «monti sorgenti dall’acque» di manzoniana memoria o al sole che «ridea calando dietro il Resegone», abbaglio carducciano, visto che l’astro, da quella parte, al limite potrebbe sorgere, come ha documentato l’astronomo comasco Corrado Lamberti. Eppure nel Novecento, e nel primo scampolo del Terzo millennio, sono molti i seguaci della musa Calliope che hanno bazzicato queste zone, traducendo le loro emozioni in versi che, in alcuni casi, già appartengono alla storia della letteratura italiana.



Per due poeti, in particolare, questo angolo di Lombardia è un luogo centrale nella loro storia. Si tratta di due maestri del secondo Novecento. Uno è Giampiero Neri, pseudonimo di Gianpietro Pontiggia, che seppur abiti a Milano da più di 50 anni, quando scrive torna sempre più spesso alla sua Erba, dove è nato nel 1927 e da cui si è distaccato a 16 anni, dopo che il padre fu ucciso nei primi atti della guerra civile. Luoghi e persone della sua infanzia sono molto presenti nell’ultima raccolta, Armi e mestieri, uscita l’anno scorso da Mondadori e lo saranno ancora di più nella prossima, in lavorazione, che si intitola «Piano d’erba», antico nome del paese d’origine. L’altro poeta biograficamente e letterariamente legato a doppio filo con il Lario è Maurizio Cucchi. Il suicidio del padre, avvenuto nei boschi di Uggiate Trevano, è infatti diventato per lui spunto per una ricerca poetica ed esistenziale che ha raggiunto risultati altissimi, culminando nell’Ultimo viaggio di Glenn (Mondadori, 1999), dove il poeta torna sul luogo della tragedia.

Altre volte lago e montagne sono finiti nella produzione di autori importanti per ragioni occasionali. Alda Merini, per esempio, ha scritto una serie di «Poesie per Chiavenna», nate da un viaggio effettuato nella valle della Mera nel 2001 per ritirare il premio Madesimo. Un altro grande, Raffaello Baldini, scomparso qualche mese fa, ha raccontato nel suo dialetto di Sant’Arcangelo di Romagna una gita sul lago di Como, che per poco non gli risultò fatale, essendo finito con il pullman in un dirupo. Il brano si trova in Intercity (Einaudi), che attraverso frammenti di vita come questo ci ha dato una delle testimonianze poetiche più forti del giovanissimo ventunesimo secolo. C’è poi un poeta fiammingo residente in Spagna, Germain Droogenbroodt, che giunto sul Lario da turista se n’è innamorato al punto di tornarci in vacanza più volte e da dedicargli un intero libro, «Conosci il tuo paese?», pubblicato nel 2001 dalle edizioni Archivi del ’900 di Milano.

In un secolo che ha visto concentrarsi nel capoluogo lombardo molti grandi poeti e scrittori, era inevitabile che il Lario e la Valtellina, mete storiche delle gite fuoriporta dei "milanes", finissero prima o poi in qualche loro testo. Così Raul Montanari, stimolato dal comitato per le celebrazioni del centenario di Giuseppe Terragni, ha messo in versi un racconto noir che parte dalla visita a un’edicola funeraria realizzata dall’architetto razionalista nel cimitero di Como. Un sodale di Montanari, Aldo Nove (c’è anche lui nel libro Razionalismo remix), si è divertito a rendere i «finanzieri del distretto di Como» protagonisti di una delirante «avventura di Capodanno» inclusa nella silloge Nelle galassie oggi come oggi (Einaudi), una raccolta di cover, ovvero di testi poetici scritti sui motivi di brani pop-rock, in questo caso «All il full of love» della islandese Björk.

Qualche milanese, inoltre, ha sul Lario la seconda casa, ideale per ritirarsi a scrivere. Prima o poi è giocoforza che lo straordinario paesaggio circostante gli prenda la penna. È stato così per Antonia Pozzi, che prima di togliersi la vita nel ’38, a 26 anni, con un’overdose di barbiturici, ha generato un fiume di poesie, molte delle quali datate Pasturo, nel Lecchese, dove villeggiava con la famiglia. Se lei ormai appartiene alla storia, c’è una altro poeta-villeggiante, Silvio Aman, che sta per pubblicare in una delle più raffinate collane di poesia, quella della novarese Interlinea, la raccolta Fiori del tempo, dove il Lario fa capolino qua e là: inevitabile per uno che ha un appartamento a Mezzegra e fino all’età di 12 anni ha abitato a Cernobbio.

Un po’ diverso è il caso di un altro milanese, Franco Spazzi, che se ha pubblicato tre sillogi nel dialetto di Lanzo Intelvi non è tanto perché lì passa le estati nella casa che fu dei suoi nonni, quanto perché vi trascorse l’infanzia, da sfollato, in tempo di guerra. Pure nell’ultima raccolta del grande, e compianto, Giovanni Raboni, Barlumi di storia (Mondadori, 2002), Como è legata a ricordi del ’43, quando molti vennero da queste parti per cercare una via di salvezza oltre il confine svizzero.

Spazzi appartiene anche alla specie, rara ma non troppo (basti pensare a un Michelangelo o a un De Pisis), dei pittori-poeti, in buona compagnia di un brianzolo l’adozione, e campano d’origine, come Gaetano Orazio. Questi vive a Cremella e lavora, principalmente, lungo il corso del Rio Toscio, sui monti sopra Civate, dove è andato a scovarlo Philippe Daverio con le telecamere di Raitre. Dalla simbiosi con la natura sono nati, oltre a tanti quadri, anche tre libri di poesie, tra i quali Hotel Brianza. Pittore-poeta, nonché critico e drammaturgo, è stato anche Giovanni Testori, un grande lombardo: se Milano è l’epicentro della sua produzione, la Bassa comasca, in particolare Lomazzo, è il "teatro naturale" (titolo di una silloge del già citato Neri) su cui si muove la squinternata compagnia dell’«Ambleto», e Chiavenna, tappa intermedia delle sue frequenti incursioni elvetiche, la si ritrova immortalata nel poema «I trionfi» (1965), nella raccolta di poesie A te (1973) e nel romanzo La cattedrale (1974).

Persino due premi Nobel hanno scritto poesie "intorno al Lario". Luigi Pirandello passa da queste parti nel 1889, diretto all’Università di Bonn, dopo che ha dovuto lasciare quella di Palermo in seguito a contrasti insanabili con il professore di Lettere. Si ferma da amici a Cavallasca. Fa anche in tempo a innamorarsi di una ragazza, sebbene in Sicilia abbia lasciato pure una fidanzata. Ma non è un amore felice, come si intuisce dall’acredine che riserva alla «bruna di Como» nella poesia «Convegno», pubblicata sulla Rivista d’Italia nel 1901 e nella raccolta «Fuori di chiave» del ’13. Un amore perduto aleggia anche tra l’Adda e Ardenno, cantati ne «La dolce collina», una lirica uscita nella sezione «Nuove poesie» della raccolta più celebre di Quasimodo, Ed è subito sera (1942). L’ambientazione non è casuale: negli anni precedenti il geometra di Modica era stato impiegato al genio civile di Sondrio. Una tappa del percorso che nel 1959 l’avrebbe portato ad essere incoronato dall’Accademia di Stoccolma.

Nel periodo valtellinese, Quasimodo strinse strette relazioni con un gruppo di artisti e letterati milanesi, tra i quali un ragazzo del Sud, il salernitano Alfonso Gatto, antifascista militante. Dopo la Resistenza e alcune esperienze da inviato per i giornali del Pci, nell’estate del ’49 Gatto si trasferisce a Carate Urio, ospite di un albergo gestito da amici, assieme alla compagna Graziana Pentich. L’8 ottobre di quell’anno, a Como, nasce il loro figlio Leone. Per più di un anno il papà continuerà a fare il pendolare tra Carate e Milano, prima di trasferirsi nel capoluogo regionale con la famiglia. Ma la parentesi lariana, gravida di affetti cullati dalle acque del lago, riemergerà più volte nelle sue poesie.

Se i milanesi, poeti e non, vengono sul Lario innanzi tutto per "ciapà un pù de aria bona" - come Delio Tessa che ha scritto dei suoi soggiorni a Moltrasio nel libro di memorie Brutte fotografie di un bel mondo - tornano più volentieri se sono motivati anche da qualche interesse letterario. Così Roberto Sanesi, che ha trovato a Como il suo critico più attento e assiduo, Vincenzo Guarracino. Dopo la prematura scomparsa del poeta-pittore milanese, è stato proprio Guarracino a curare l’edizione postuma per la comasca Lietocollelibri del suo poemetto inedito In laude Larii laci, ovvero «In lode del lago di Como», imitazione dell’antico poeta longobardo Paolo Diacono. Un punto di riferimento per i poeti, non solo milanesi ma mondiali, visto che ha pubblicato persino l’icona della beat generation Allen Ginsberg, si trova in Brianza, a Osnago, in una casa con due caprette e un coniglio. È qui che vive e lavora Alberto Casiraghi, «l’unico editore che stampa in giornata», con una vecchia macchina tipografica da cui sono usciti in 23 anni oltre seimila plaquette che abbinano una poesia a un’opera d’arte originale. Tra i più convinti sostenitori delle edizioni Pulcinoelefante vi è Vivian Lamarque, che un giorno, dopo aver stampato da Casiraghi, ha comprato con lui tre sacchi di lumache e le ha liberate nei boschi. Il tutto documentato in una poesia inclusa nel 2002 in un Oscar Mondadori.

Ma «i monti sorgenti dall’acque» non sono solo terra di conquista, o di svago, per poeti forestieri (a partire dal Manzoni che villeggiò a Lecco da ragazzo). Il genius loci, lo spirito del luogo, ha ispirato anche autori locali, che però solo in rari casi sono riusciti a uscire dal territorio. Un limite su cui forse hanno influito, aldilà delle capacità dei singoli, anche i monti e le acque manzoniani, che sono diventati una barriera per i loro versi. È vero che la poesia, come la storia, non si fa con i se e con i ma. Ma viene spontaneo chiedersi se un Basilio Luoni, pubblicato nel ’93 da Dante Isella sull’Almanacco dello Specchio della Mondadori, non avrebbe "fatto carriera" se invece che a Lezzeno, sulla sponda orientale del Lario, avesse abitato a Milano o a Roma. E un Vito Trombetta, che vive a Laglio e scrive nel dialetto di Torno, non sarebbe arrivato prima dei 60 anni alla pubblicazione per un grande editore, conquistata solo di recente con una dozzina di testi inseriti nell’antologia di Einaudi Nuovi poeti italiani 5? Ma forse, nel mondo delle comunicazioni superveloci, qualcosa sta cambiando, se Francesco Osti, ventinovenne di Morbegno, è stato incluso da Maurizio Cucchi e Antonio Riccardi nell’antologia Nuovissima poesia italiana, uscita lo scorso Natale da Mondadori.

Più fortuna, finora, hanno avuto alcuni migranti, che tuttavia non hanno mai abbandonato il legame, anche letterario, con il paese natale: Giancarlo Consonni, meratese, docente al Politecnico di Milano, dove vive, habitué di Scheiwiller ed Einaudi; Giuliano Dego, colichese, docente alla London University, pubblicato in poesia nelle edizioni del medesimo ateneo e in prosa nella Bur; Grytzko Mascioni, che dalla natia Madonna di Tirano ha girato l’Europa, è stato cofondatore della Televisione svizzera, ha pubblicato romanzi e poesie da Mondadori e Rusconi, ha lavorato in Grecia, Francia e Croazia, fino alla morte che lo ha colto a Nizza nel 2003.

Mascioni è esponente di un’altra specie, quella dei poeti di frontiera, che intorno al Lario ha trovato in suo habitat ideale. Si pensi a un Fabio Pusterla, nato nel ’57 a Mendrisio, con doppia cittadinanza e residenza, una a Lugano, dove insegna al liceo, e l’altra ad Albogasio, frazione di Valsolda, sponda comasca del Ceresio. Le "terre di mezzo" tra l’Italia e la Svizzera, come la Val d’Intelvi, sono molto presenti anche nella sua ultima raccolta, «Folla sommersa», uscita nel 2004 da Marcos y Marcos. Un’altra dogana, quella di Ponte Chiasso, ha visto e vede passare con una certa frequenza Alberto Nessi, anche lui nato a Mendrisio (nel ’40) e cresciuto a Chiasso. Senza dimenticare Angelo Maugeri, uno dei poeti lanciati negli anni Settanta dalla mitica collana «I quaderni della Fenice» di Guanda, che dalla natia Messina si è trasferito a Campione d’Italia, enclave comasca in territorio elvetico, dove insegna e presiede l’Associazione scrittori della svizzera italiana.

Per mantenere viva la fiaccola della poesia, soprattutto in piccole patrie come Como Lecco e Sondrio, è fondamentale il ruolo di alcuni entusiasti "sacerdoti" delle muse. Tra i più attivi Claudio Di Scalzo, che dopo essere nato a Vecchiano, in provincia di Pisa, ed aver pubblicato il romanzo epistolare Vecchiano, un paese da Feltrinelli, è approdato a Chiavenna, dove dirige la rivista Tellus, porto sicuro e accogliente per i vari Mascioni, Luzzi, ma anche per le «Poesie per Chiavenna» della Merini, e l’Accademia Bertacchiana.

Posto che nel Novecento, e ancora di più nel Duemila, nessuno può dirsi poeta di professione (Montale, non per niente, si presentava come giornalista), e che il titolo oggi viene dato dalla critica, è inevitabile che nascono dei "conflitti di interesse". Se alcuni poeti si sono affermati anche come critici - Franco Loi, Maurizio Cucchi, Giovanni Giudici -, qualcuno ha percorso autorevolmente il cammino inverso. Per rimanere "intorno al Lario", vanno citati almeno due casi: Giorgio Luzzi, firma della rivista Poesia, ha pubblicato raccolte da Crocetti, Marsilio e Scheiwiller (ma in questa sede ci interessano soprattutto degli inediti legati alla Valtellina, dove è nato e spesso fa ritorno, mentre vive a Torino); il brianzolo Fulvio Panzeri, che, tra le tante cose, ha curato l’opera omnia di Testori e Tondelli per Bompiani, ma ha anche editato da Guanda, nel 2000, la silloge L’occhio della trota.

Storia a sé fa Davide Bernasconi. Per i più è Van De Sfroos, il bardo delle Tremezzina che ormai ha conquistato l’Italia e anche un pezzo di Europa. Canzone e poesia, si sa, sono cose diverse («La canzone ha bisogno di un accompagnamento musicale - dice Loi - la poesia ha la musica dentro»), e a volte i poeti si arrabbiano quando vedono definire poesia le rime elementari di un Guccini. Ma il Bernasconi di Mezzegra è al di sopra di ogni sospetto: la sua per ora unica raccolta di poesie, Perdonato dalle lucertole», risale al ’97, prima del successo da cantautore. E tra un concerto e l’altro, ma ormai anche tra un romanzo e l’altro (ne ha uno in uscita da Bompiani), ogni tanto sente ancora la necessità di scrivere una poesia.





Pietro Berra è nato a Como nel 1975. Giornalista, lavora al quotidiano “La Provincia” e collabora con il settimanale “Diario”. Ha pubblicato le raccolte di poesie Un giorno come l’ultimo (Dialogo, 1997), Poesie di lago e di mare (Lietocolle, 2003) e Poesie politiche (Luca Pensa Editore, 2005), la biografia Giampiero Neri. Il poeta architettonico (Dialogolibri, 2005); i libri di inchieste e reportage giornalistici La scena immaginata (Nodolibri, 2002), Carla Porta Musa cento anni a Como (Enzo Pifferi Editore, 2002) e Sei frustate per una rapa. Storie del Novecento (Marna, 2004); il volume di storie e leggende lariane Nel paese dei pescaluna (Marna, 2004). Come poeta ha collaborato con diversi artisti: Gin Angri, Franco Spazzi, Silvio Nocera e Alfredo Taroni nelle plaquette delle edizioni Pulcinoelefante, Alessandro Berra nel librino Un piccione a New York (Signum, 2001), di nuovo con Taroni nel racconto in versi sugli schiavi di Hitler Disfattista! (Lythos, 2002) e con Gaetano Orazio nella mostra e nel cd-rom Fiume Aperto (galleria “Il Salotto”, 2004).