domenica 7 novembre 2010

Intervista a Daniela Palmieri autrice de La Cerva per Besa editrice a cura di Stefano Donno












C’è un b-side della letteratura salentina che racconta questo Sud del Sud del mondo, che lo agisce, che lo fa respirare a pieni polmoni, ed è fatto da alcune donne della letteratura a queste latitudini, tra cui Flora Russo, Rina Durante, Claudia Ruggeri, le contemporanee Elisabetta Liguori, Luisa Ruggio, le giovanissime Marthia Carrozzo, Ilaria Seclì, e Margherita Macrì, solo per citarne alcune.

Poi oggi, ricevo una sorpresa che viene dalla casa editrice Besa di Nardò. Una sorpresa consegnata ai lettori dal palato buono, da una donna che nei libri ci ha vissuto da sempre, e con essi ci è cresciuta e ora ci campa. Lei è Daniela Palmieri, figlia di Anna ed Edo Palmieri, titolari della storica libreria leccese. Il suo libro si chiama “La cerva” (un esordio). Fondamentalmente un canto d’amore. Un canto d’amore per i muretti a secco, per questo sole e per la storia che questa terra ha da raccontare. Daniela Palmieri, lo fa in punta di penna, parte da lontano, e lo fa dalla storia di una famiglia, di un piccolo paese del Salento, che rappresenta il paradigma di certi umori, suoni e colori che hanno fatto “la sostanza” di un popolo, di un territorio. Il nostro! Ho voluto intervistarla, molto curioso di “sentirla” in questa sua prima narrativa.

“La cerva” ha tutto un suo background pregresso. Quale?

Se mi chiedi perchè ho scritto questa storia, questa e non un altra o come è nata l'idea di parlare di una famiglia salentina non so risponderti in modo preciso. Ho sempre inventato storie, fin da piccola, per tenermi compagnia, così come ho un diario in cui negli anni ho scritto quello che accadeva. Ma le altre storie non si lasciavano scrivere, ogni volta che iniziavo poi mi distraevo, mancava la curiosità per andare avanti. Mentre questa l'ho continuata come fosse un puzzle di cui mettere insieme i pezzi, le fiigure, i personaggi.

Perchè ambientarla proprio nel Salento? Perché è cool, è di tendenza, effetto “Özpetek”, o c’è altro?

Perchè sono di qui e non mi è venuto in mente nessun altro luogo e poi era come se avessi bisogno di mettere ordine in quelle emozioni che i canti popolari, le processioni., mi suggerivano senza che io riuscissi a dar loro contorni precisi. Un sentimento forte che si avverte, si intuisce senza però farne parte. Quasi che scrivere del Salento e della sua storia significasse per me affermarne l'appartenenza. E sicuramente potevo raccontarlo in modo diverso perchè per ogni storia ci sono tanti punti di vista, il mio voleva essere allargato. Ognuno di noi cerca di distinguersi, di specificarsi, di essere originale ma in fondo rispondiamo a meccanismi semplici e quando costruiamo la nostra unicità la vita è trascorsa.

Partire dai “margini” della vita salentina nel dare voce ai tuoi personaggi ti ha permesso di essere più obiettiva, più coerente nei contenuti che hai offerto ai lettori in questo tuo primo lavoro?

Non ho pensato se partire dall'alto o dal basso, ho pensato alle persone e le persone per lo più sono gente comune che conduce esistenze banali, ripetitive. Vedevo in questa società per alcuni versi chiusa, arcaica come un rifugio, nel codice non scritto che la governava un'assicurazione quasi che seguire un comportamento abituale non preveda rischi, sfide, eccessivo odio o eccessivo amore. Ma mentre costruivo i personaggi quelli rompevano continuamente gli schemi, si trovavano fuori posto, non riuscivano a rispettare il loro stato o per rispettarlo soffocavano una parte di se. Gli uomini e le donne del racconto non sono privi di emozioni e neppure manca loro il mezzo per esprimerle è solo che spesso non possono permettersi di farlo. Perchè l'emozione svelata prevede la presunzione che qualcuno ci ascolti. Alla fine tutto si ricompone nel tempo che passa, nel mondo che intorno a loro cambia. E qualcuno ne resta vittima ma volevo che la tragedia perdesse sacralità, infondo non è eccezione ma è regola della nostra vita come lo è la morte.

(fonte Paese Nuovo)

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